Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

lunedì 28 febbraio 2011

501 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA MARZO 2011

Generale: Perché le nazioni dell'America Latina possano camminare nella fedeltà al Vangelo e progredire nella giustizia sociale e nella pace.

Missionaria: Perché lo Spirito Santo dia luce e forza alle comunità cristiane e ai fedeli perseguitati o discriminati a causa del Vangelo in tante regioni del mondo.

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La persecuzione è qualcosa di inerente alla Chiesa fin dalla sua fondazione. Si può quasi dire che è parte della sua essenza. Dal momento che il Signore disse: "Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi" (Gv 15, 20), ogni vero cristiano e ogni comunità cristiana deve sapere che sarà oggetto di persecuzione. Il Santo Padre Benedetto XVI ha riaffermato questo concetto quando ha detto: “La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità” (Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2009, n.4).

Sant'Agostino ha detto: "La luce, che è amata dagli occhi sani, è odiosa per gli ammalati". La Chiesa, quando vive fedelmente il messaggio di Cristo, diventa veramente "luce del mondo", e per questo provoca fastidio agli occhi malati. Quando la Chiesa annuncia il Vangelo integralmente, diventa "sale della terra" che fa bruciare le ferite. Non possiamo ignorare che ognuno di noi deve anche mettere la sua vita alla luce del Vangelo e subire il bruciore del sale, dato che dobbiamo vivere in un continuo spirito di conversione, lasciando da parte le incoerenze che spesso accompagnano la nostra vita. In caso contrario, saremo solamente sale che non ha più sapore e che serve solo per essere gettato sulla strada, in modo che venga calpestato da coloro che passano.

La persecuzione è stata presente nella vita di Gesù e della Chiesa primitiva. All'epoca in cui venne scritto il libro dell'Apocalisse, la Chiesa ha vissuto un tempo di persecuzione, tribolazione e confusione (cfr. Ap 1, 9). Tuttavia nella visione dell’Apostolo San Giovanni è stata proclamata una parola di speranza: "Non temere, io sono il Primo e l'Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre, e ho le chiavi della morte e degli inferi" (Ap 1, 17-18).

Insieme alla costante presenza di Cristo, che ha vinto la sofferenza e la morte attraverso la sua risurrezione, la Chiesa trova la forza di perseverare, anche in mezzo alle persecuzioni, grazie al dono prezioso dello Spirito Santo: “Riceverete la forza dallo Spirito Santo e di me sarete testimoni” (cfr. At 1, 8). Lo Spirito aiuta con il dono della forza coloro che devono dare prova della loro fede in Cristo tra le opposizioni, e sostiene i credenti in modo che possano giungere alla suprema testimonianza del martirio, se necessario.

Che questo Spirito, che è luce e forza divina, sostenga i nostri fratelli che vivono sotto la prova della persecuzione. Questo stesso Spirito animi la nostra preghiera perché sia autentica, ardente e impegnata. Le forme di persecuzione sono differenti nelle diverse parti del mondo. In alcuni paesi si ricorre all'uso della violenza fisica, della coercizione, delle minacce. Nelle culture occidentali di oggi si usa gettare il discredito, insultare e ridicolizzare tutto quello che è cristiano. Che lo Spirito Santo renda i cattolici testimoni autentici di Cristo, coerenti con il Vangelo, uomini che non si adattano a questo mondo (cfr. Rm 12, 2). Solo coloro che sono disposti a soffrire per la confessione del nome di Cristo, possono essere veramente suoi discepoli.

Preghiamo dunque in questo mese per i nostri fratelli perseguitati e, perché la nostra preghiera sia sincera, sentiamoci disposti a condividere alcune delle loro sofferenze per la confessione del Signore crocifisso e risorto.

sabato 26 febbraio 2011

500 -LA DOMENICA DETTA «DELLA DIVINA CLEMENZA»

Tiziano, Cristo e l'adultera
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La tradizione liturgica propria della nostra Chiesa ambrosiana orienta, con le ultime due domeniche del Tempo dopo l’Epifania, alla suprema manifestazione del Signore nell’ora della croce e della risurrezione a cui veniamo preparati con la Quaresima. In questa domenica si pone in primo piano la «divina clemenza» che si rivela nel Signore Gesù, nelle sue parole e nei suoi gesti fino alla croce.

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Lettura: Baruc 1,15a; 2,9-15a: Nulla rivela maggiormente il mistero di Dio che la misericordia nella quale egli perdona le nostre colpe. Più che la creazione, è la redenzione con cui egli ci riscatta dalla schiavitù del male a rivelare che egli è il nostro Dio e noi siamo suoi.

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Salmo 105: Rendete grazie al Signore, il suo amore è per semre.

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Epistola: Romani 7,1-6a: Per Paolo l’adulterio ha un significato simbolico: tradire il legame sponsale che in Cristo ci unisce a Dio. Un’infedeltà che può assumere una forma sottile:confidare nella propria osservanza della Legge, dunque in se stessi, anziché nel dono dello Spirito.

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Vangelo: Giovanni 8,1-11: Oltre la donna, gli scribi e i farisei giudicano Gesù. Ma lui è un vero giudice e il suo è un giudizio di misericordia. Non nega il peccato della donna, ma rivela anche quello dei suoi accusatori, mostrando come tutti abbiamo bisogno della misericordia del Padre.

venerdì 25 febbraio 2011

499 - L'ADULTERA

I vv. 1-3 del Vangelo (di Giovanni 8,1-11) servono da raccordo con quanto è stato detto a proposito dell’ammirazione della folla per Gesù e della crescente avversione dei capi del popolo nei suoi confronti (Giovanni 7,45-52), ma anche per preparare la scena del presente racconto. Questa è ambientata nel tempio (v. 2), luogo dell’incontro di Dio con il suo popolo e, proprio nel tempio, accorreva “tutto il popolo” per ascoltare l’insegnamento di Gesù.

I vv. 3-6 registrano l’iniziativa malvagia di “scribi e farisei” al fine, come avverte il v. 6a, di mettere Gesù «alla prova o per avere motivo di accusarlo». Viene, perciò, condotta davanti a lui una donna colta in flagrante adulterio. Una colpa, questa, che per le norme contenute nella Legge mosaica (cfr. Esodo 20,14; Levitico 20,10; Deuteronomio 22,22) andava punita senz’altro con la morte per lapidazione. Pena a cui, certo, non poteva sottrarsi quella donna perché presa nell’atto stesso di commettere adulterio.

La domanda posta a Gesù dai suoi avversari (v. 5) era destinata a metterlo in una situazione di autentico disagio. Se Gesù avesse detto una parola di perdono sarebbe palesemente andato contro la Legge squalificandosi, così, come “maestro” in Israele. Se Gesù avesse consentito a condannare a morte la donna avrebbe smentito tutto il suo insegnamento e i suoi atteggiamenti di perdono e di accoglienza verso i “peccatori”.

Il v. 6b pone al centro della scena Gesù mentre compie due gesti misteriosi: «si chinò e si mise a scrivere col dito per terra», gesto che ripete (v. 8) a motivo dell’insistenza dei suoi avversari di ottenere da lui una risposta (v. 7).

La tradizione della Chiesa, così come lo stesso sant’Ambrogio, ha interpretato il gesto misterioso di Gesù di scrivere per terra secondo le parole del profeta Geremia, che a proposito di coloro che si allontanano da Dio afferma che i loro nomi «saranno scritti per terra» (Geremia 17,13). Con questo gesto simbolico Gesù vuole ricordare a tutti i presenti il giudizio di Dio sui “peccatori” ossia su tutti gli uomini che, proprio a motivo del loro peccato, sono destinati a svanire come polvere della terra.

In una parola, Gesù esorta gli accusatori della donna a rientrare in sé stessi e a guardare in faccia alla verità: sono peccatori e, come l’adultera, di per sé meritevoli della giusta condanna di Dio.

È ciò che viene poi chiarito dalle parole stesse di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). Con ciò Gesù invita gli accusatori della donna a rendersi conto che «nessun uomo è giusto davanti a Dio» (Salmo 14,1-3; 53,2-4; Romani 3,9-12.23) e, perciò, tutti sono meritevoli di condanna.

Il v. 9 riporta le reazioni degli scribi e farisei che se ne vanno «cominciando dai più anziani» perché più esperti della miseria e del peccato!

I vv. 10-11 riportano infine il dialogo tra Gesù e l’adultera, rimasta sola davanti a lui, e a lui ella si rimette dicendogli: «Nessuno, Signore». Le parole del Signore: «Neanch’io ti condanno», lasciano intendere che lui è venuto non a condannare, ma a salvare gli uomini, peccatori! Perciò la donna, d’ora in poi, è da Gesù esortata a “non peccare più”, a vivere cioè nella condizione di libertà dalla condanna di morte dovuta per il suo peccato.

Proclamato nel peculiare contesto liturgico che fa da ponte tra la prima manifestazione della divina clemenza e quella suprema della croce, il brano evengelico dispone con il prossimo tempo di Quaresima a guardare alla Pasqua di morte e di risurrezione come al “giudizio” di Dio su tutti gli uomini, senza eccezione sotto il giogo del peccato, da intendere però, non come giudizio di condanna, ma di assoluzione e di perdono.

L’atteggiamento di Gesù nei riguardi della donna adultera è in perfetta sintonia con la rivelazione della misericordia e della clemenza di Dio nei riguardi del suo popolo “adultero” perché traviato dalle perversioni dell’infedeltà e dell’idolatria.

La consapevolezza di Israele testimoniata nel Salmo 105: «Si ricordò della sua alleanza con loro e si mosse a compassione», è riconoscibile nell’invocazione corale della Lettura dove il popolo, in esilio, prendendo coscienza del proprio peccato si appella al proprio Dio: «Allontana da noi la tua collera... Ascolta, Signore, la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per il tuo amore» (Baruc 2,13-14).

Anche noi, ponendoci davanti a Gesù, mentre apriamo gli occhi sulla nostra reale condizione di peccatori, riconosciamo in lui la divina clemenza che liberandoci dal cerchio mortale delle nostre colpe ci restituisce, come avvenne per l’adultera, a vita nuova.

È ciò che ci dice l’Apostolo: «Anche voi, mediante il corpo di Cristo, siete stati messi a morte quanto alla Legge per appartenere a un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio» (Epistola: Romani 7,4). L’esperienza della “divina clemenza” che si fa concreta per tutti noi nella celebrazione eucaristica, ci restituisce continuamente a vita nuova, ci rende più forti nel perseverare in essa secondo il comando del Signore all’adultera perdonata e ci fa capaci di portare “frutti per Dio”, primo fra tutti la “clemenza” e la carità verso il nostro prossimo.

(A. Fusi)

venerdì 18 febbraio 2011

498 - VII DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

Il brano di Matteo 9,27-35 è composto dal racconto della guarigione dei due ciechi (vv.27-31) e del muto indemoniato (vv.32-34) e dal resoconto dell’attività messianica di Gesù (v. 35).

Il racconto della guarigione dei due ciechi si apre al v. 27 con l’implorazione rivolta a Gesù invocato come “Figlio di Davide”. In Israele vi era infatti la convinzione che il Messia sarebbe stato un discendente di Davide secondo la promessa fatta da Dio stesso (cfr. 2Samuele 7,12-16).

All’implorazione Gesù risponde sollecitando la confessione di fede dei ciechi: «Credete che io possa fare questo?» che arriva pronta e inequivocabile: «Sì, Signore» (v. 28). Segue la parola di guarigione: «Avvenga per voi secondo la vostra fede», accompagnata dal gesto di Gesù che «toccò loro gli occhi» (v. 29).
Viene da pensare che Dio, pur sapendo di quali cose abbiamo bisogno prima ancora che gliele chiediamo (cf Matteo 6,8), tuttavia si aspetta che gli rivolgiamo le nostre richieste il cui esaudimento, come ci fanno capire le parole di Gesù ai due ciechi: «Avvenga per voi secondo la vostra fede», è in qualche modo proporzionato proprio alla nostra fede.

Il v. 30 tiene a precisare che «si aprirono i loro occhi» e dunque l’avvenuta guarigione dei ciechi. Il racconto si conclude con l’inutile ingiunzione data da Gesù ai ciechi ormai guariti: «Badate che nessuno lo sappia». Essi non potevano trattenersi dal dire a tutti ciò che il maestro di Nazaret aveva loro fatto.
Il secondo racconto riguarda la guarigione del “muto indemoniato” (vv. 32-34) che, al contrario del precedente racconto, non riporta alcuna richiesta di guarigione trattandosi di un “muto”, né la professione di fede, né parole e gesti compiuti da Gesù. Ci si limita a constatare che: «dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare» (v. 33).

L’accento cade qui, invece, sulla duplice reazione, della folla e dei farisei, davanti a tali prodigi. La gente semplice è presa da stupore ammirato (v. 33b) mentre da parte dei farisei viene insinuata la convinzione che Gesù agisce sotto l’influsso della magia e della stregoneria. Con un simile atteggiamento privo totalmente di “fede” e per giunta blasfemo, i farisei, nella loro chiusura, diventano i prototipi degli increduli, capaci di resistere anche all’azione potente dello Spirito che agisce in Gesù per la salvezza degli uomini.
Il brano si conclude, al v. 35, con una sintetica dichiarazione relativa all’opera evangelizzatrice del Signore portata in ogni città e villaggio e che consiste anzitutto nell’“insegnamento”, ovvero nella spiegazione delle Scritture, nella predicazione e nell’annuncio del “vangelo del Regno” che è presente proprio nella sua persona ed è come illustrato e confermato nella sua opera di guarigione da «ogni malattia e da ogni infermità».
La proclamazione di questa pagina evangelica nel tempo dopo l’Epifania mette in luce ancora una volta come in Gesù, che guarisce i ciechi e libera dalla forza diabolica il muto indemoniato, si rivela e si manifesta la bontà e la grandezza dell’amore di Dio liricamente cantato nel Salmo 102 che ci fa dire più volte: «Il Signore è buono e grande nell’amore».

I due ciechi, il muto indemoniato e i guariti da “ogni malattia e ogni infermità” in realtà rappresentano tutti gli uomini, di tutti i tempie di tutte le latitudini, di fatto, in “balia delle loro iniquità” e di oscure forze demoniache e ai quali ben si addicono le parole profetiche della Lettura: «Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento» (Isaia 64,5).

Il pronto intervento di Gesù che fa seguito all’invocazione dei due ciechi: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi», ci dice che è Gesù la risposta di salvezza che Dio dà, una volta per tutte, agli uomini che, presa coscienza della loro triste situazione, gli dicono: «Guarda: tutti siamo tuo popolo» (Isaia 64, 8).

Questa opera di guarigione e di salvezza il Signore Gesù continua a compierla nella sua Chiesa che, portando in sé «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Epistola: Filippesi 2,5) nei confronti degli uomini, continua a recare ovunque l’annunzio del vangelo del Regno e a guarire ogni malattia e infermità con il sacramento dell’amore del Signore: il suo corpo e il suo sangue.

Ogni uomo, perciò, può dire in tutta verità: «Canterò senza fine la pietà del Signore. Con la mia bocca annunzierò a tutte le genti la tua verità» (Canto Allo Spezzare del Pane).

(A.Fusi)

mercoledì 16 febbraio 2011

497 - BEATI I PURI DI CUORE

Come uno specchio risplendente, così deve essere pura l'anima dell'uomo. Quando invece lo specchio si deteriora, il viso dell'uomo non può più essere visto in esso. Allo stesso modo quando il peccato ha preso possesso dell'uomo, egli non può più vedere Dio...
Ma se vuoi, puoi essere guarito. Affidati al medico ed egli opererà gli occhi della tua anima e del tuo cuore. Chi è questo medico ? È Dio, il quale per mezzo del Verbo e della Sapienza guarisce e dà la vita. Dio, per mezzo del Verbo e della Sapienza, ha creato tutte le cose ; infatti : « Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera » (Sal 32, 6). La sua Sapienza è infinita : « Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con intelligenza » (Pr 3, 19)...
Se capisci queste cose, o uomo, e se vivi in purezza, santità e giustizia, puoi vedere Dio. Ma prima di tutto vadano innanzi nel tuo cuore la fede e il timore di Dio e allora comprenderai tutto questo. Quando avrai deposto la tua mortalità e ti sarai rivestito dell'immortalità, allora vedrai Dio secondo i tuoi meriti. Egli infatti fa risuscitare insieme con l'anima anche la tua carne, rendendola immortale e allora, se ora credi in lui, divenuto immortale, vedrai l'Immortale.

San Teofilo di Antiochia (? - circa 186), vescovo

venerdì 11 febbraio 2011

496 - VI DOMENICA DOPO L’EPIFANIA

Il testo evangelico di Matteo 12,9-21 è chiaramente diviso in due parti: vv. 9-14 e vv. 15-21. La prima parte riporta sostanzialmente la guarigione di un uomo con una “mano paralizzata” compiuta da Gesù in una sinagoga in giorno di sabato. Il racconto perciò, a ben guardare, si sviluppa proprio attorno alla domanda posta a Gesù dai farisei: «è lecito guarire in giorno di sabato?» (v. 10).

Il sabato, com’è noto, è uno dei pilastri portanti di tutta la concezione religiosa di Israele. Esso fa parte della Legge data da Dio a Mosè e consiste in un giorno di riposo ad imitazione di ciò che Dio stesso fece al termine dei sei giorni della creazione. Il sabato, inoltre, è destinato al culto da rendere a Dio e, perciò, è un giorno sacro.

Con la sua risposta (vv. 11-12) Gesù, mentre sottolinea il primato dell’uomo su ogni altra creatura, afferma di voler sempre anteporre il “fare del bene” a ogni altra norma per quanto sacra qual è, appunto, l’osservanza del sabato.

La Scrittura, del resto, conosce e afferma la prevalenza del “fare del bene” sull’osservanza di norme religioso-cultuali. E il caso narrato nella Lettura: il sacerdote Achimélec non esita a dare a Davide e ai suoi accompagnatori affamati, i “pani sacri” che non era lecito a nessuno mangiare se non ai soli sacerdoti (1Samuele 21,7). Non è evidentemente questa la linea dei farisei i quali, infatti, davanti al comportamento di Gesù giudicato dissacrante: «tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (v. 14).

La seconda parte del nostro brano, dopo aver detto come Gesù si sottrae alla polemica continuando però nella sua attività di “guarigione”, è come occupata dalla lunga citazione di Isaia 42,1-4 che viene qui trascritta ai vv. 18-21 e riguardante la peculiare modalità nella quale Gesù vive il suo ministero messianico: egli viene nel mondo a portare il “giudizio” a tutte le genti, ma il suo non sarà un giudizio di condanna bensì di salvezza! Il giudizio di condanna lo prenderà su di sé nell’ora della croce così che per gli uomini il giudizio sarà di salvezza.

Per questo egli si presenta come il Messia “mite”, il quale «non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta». Anzi, proprio perché toglie di mezzo il giudizio di condanna, proprio perché mostra di saper «prendere parte alle nostre debolezze» (Epistola: Ebrei 5,15) in lui potranno davvero «sperare tutte le nazioni» (v. 21).

Proclamato in questi giorni del tempo liturgico che si prefigge di far risaltare i diversi aspetti dell’Epifania del Signore, il brano esalta l’attività taumaturgica nella quale il Signore rivela la sua bontà e il suo amore verso tutti gli uomini e mostra la modalità specifica nella quale compie la missione ricevuta dal Padre con la sua venuta in questo mondo: prendere parte alle debolezze dell’uomo, anzi, assumerle nella sua persona, per guarire e sollevare ogni uomo dall’oppressione del male e salvarlo dal “giudizio”.

Ben a ragione, perciò, possiamo tutti sperare in lui facendo nostre le parole del canto all’Ingresso: «Dalla mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha ascoltato. Ho gridato dal fondo dell’abisso e tu, o Dio, hai udito la mia voce. So che tu sei un Dio clemente, paziente e misericordioso e perdoni i nostri peccati».

Tutto ciò induce la Chiesa, ogni comunità e ogni fedele a riflettere attentamente sul proprio modo di porsi di fronte all’uomo d’oggi che appare come “paralizzato” e “indebolito” all’estremo dall’incredulità, dall’indifferenza, dal peccato. A imitazione di Cristo Signore occorre senza dubbio guardare in faccia il male che affligge l’uomo in atteggiamento, però, di continua paziente e premurosa accoglienza che, sola, è in grado di estendere l’opera di salvezza compiuta dal Signore quando, sulla croce, si caricò di tutte le “debolezze” dell’uomo per farlo entrare in quel “riposo” che non dura lo spazio di un giorno, ma che è quello proprio della felicità eterna.

(A.Fusi)

giovedì 10 febbraio 2011

495 - CELEBRATE IL SIGNORE

mercoledì 9 febbraio 2011

494 - RISPLENDA LA VOSTRA LUCE DAVANTI AGLI UOMINI

I cristiani sono come una luce per gli altri, per tutti gli uomini del mondo. Se siamo cristiani, dobbiamo assomigliare a Cristo.

Se vorrete impararla, l'arte della premura vi farà assomigliare sempre di più a Cristo, perché il suo cuore era umile e era sempre attento ai bisogni degli uomini. Una grande santità comincia con tale premura per gli altri; per essere bella, la nostra vocazione deve essere piena di tale premura. Dovunque sia andato Gesù, ha fatto il bene. E la Vergine Maria a Cana non pensava a nulla se non ai bisogni altrui, ed a comunicarli a Gesù.
Un cristiano è un tabernacolo del Dio vivente. Mi ha creata, mi ha scelta, è venuto ad abitare in mezzo a me, perché aveva bisogno di me.. Ora che avete imparato quanto Dio vi ama, cosa di più naturale per voi che passare il resto della vostra vita a risplendere di questo amore ? Essere cristiano, è accogliere veramente Cristo e diventare un altro Cristo. È amare così come siamo amati, come Cristo ci ha amati sulla croce.

Madre Teresa di Calcutta

venerdì 4 febbraio 2011

493 - 5 DOMENICA DOPO L'EPIFANIA

Il brano evangelico di Giovanni 4,46-54 si presenta diviso in due parti: i vv. 46-50 riportano il dialogo tra Gesù e “un funzionario del re”, ovvero di Erode Antipa, tetrarca di Galilea, con la richiesta della guarigione del figlio in fin di vita; e i vv. 51-53, con la constatazione della guarigione e dell’ora in cui è avvenuta.

Il brano, con il v. 46, è ambientato a Cana, località della quale l’Evangelista aveva già parlato a proposito del banchetto di nozze nel quale Gesù «aveva cambiato l’acqua in vino» (Giovanni 2,1-11) e viene concluso al v. 54 con la precisazione che la guarigione del bambino è il “secondo segno” compiuto da Gesù al fine di rivelare la sua “identità”. Risulta sorprendente, a prima vista, la risposta di Gesù alla richiesta del funzionario del re: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete» (v. 48). In realtà Gesù vuole condurre il suo interlocutore ad andare oltre il prodigio richiesto, per comprendere che, più della guarigione fisica del figlio, è importante per lui “credere”.

La risposta del padre addolorato non riesce ancora a fare un simile passo, egli infatti insiste: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». La solenne affermazione: «Va’, tuo figlio vive» (v. 50a ) vuole indicare la piena sovranità del Signore sulla morte e sulla vita e, dunque, è sufficiente la sua parola, a far vivere il bambino.

Il v. 50 evidenzia la disponibilità del “funzionario del re” a pervenire a una fede vera in Gesù: lui crede già alla sua parola! Per questo egli “si mise in cammino” certo che questa si sarebbe realizzata.

I vv. 51-53 spostano il racconto lontano da Gesù e dicono come, in effetti, si è avverata la sua parola. Viene perciò riportato il dialogo tra il funzionario e i suoi servi che gli riferiscono della guarigione del bambino e la reiterata sottolineatura della perfetta coincidenza tra l’ora in cui Gesù pronunzia le parole: «Va’, tuo figlio vive» e l’effettiva guarigione del bambino. Con questo l’Evangelista ci fa capire che al centro, più che il miracolo, vi è la parola del Signore capace di dare “vita”.

La reazione del funzionario «e credette lui con tutta la sua famiglia» (v 53) dice come Gesù ha ottenuto ciò che cercava compiendo il miracolo: la fede in lui! Il miracolo, perciò, è il “segno” che la parola di Gesù è capace di far passare dalla morte alla vita. Ciò che conta è pervenire alla fede perfetta in Gesù e nella sua parola che dona la vita in pienezza.

Letto nel tempo dell’Epifania, il testo evangelico permette un’ulteriore proclamazione della universalità dell’opera di salvezza portata dal Signore Gesù, già evidenziata nei Magi che accorrono a lui guidati dalla stella e ora dal “funzionario del re” che la tradizione vuole di origine pagana.

Con ciò si realizza quanto era stato detto dal profeta Isaia a proposito della volontà salvifica di Dio: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria» (Lettura: Isaia 66,18b). La “gloria di Dio”, lo sappiamo, risplende nel suo Figlio Gesù che è venuto a portare a tutti gli uomini la vita, strappandoli, come fa con il “bambino malato”, dal potere della morte, e a radunarli attorno a sé in un unico popolo, quello amato da Dio, e facendoli “eredi del mondo” (Epistola: Romani 4,13).
A essi, a noi, come a ogni uomo, è richiesta la fede, quella di Abramo che «credette a Dio che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono» (Romani 4,17) o quella del “funzionario del re” che credendo nella Parola ottiene la guarigione del suo figlio. L’Epifania del Signore apre le nostre menti e i nostri cuori alle grandi cose di Dio, ai suoi mirabili progetti di salvezza che riguardano tutti gli uomini indistintamente. A essi, infatti, ha inviato Gesù il Figlio portatore della vita, quella vera ed eterna, che è comunione con Dio donata, già da ora, a chi “crede”.

L’ascolto della Parola e la partecipazione ai divini misteri nei quali si attua sempre la salvezza in Cristo, sprona ognuno di noi a diventare cantore della grandezza e della santità di Dio, offrendo il nostro contributo perché tutti possano giungere a quella “fede” che consente di avere parte alle promesse e all’eredità di Dio.

(A.Fusi)