Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

martedì 29 aprile 2014

931 - L'ATTEGGIAMENTO DI MARIA

Tre parole sintetizzano l’atteggiamento di Maria: ascolto, decisone, azione; ascolto, decisone, azione. Parole che indicano una strada anche per noi di fronte a ciò che ci chiede il Signore nella vita. Ascolto, decisione, azione.
1. Ascolto. Da dove nasce il gesto di Maria di andare dalla parente Elisabetta? Da una parola dell’Angelo di Dio: «Elisabetta tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio…» (Lc 1,36). Maria sa ascoltare Dio. Attenzione: non è un semplice “udire”,un udire superficiale, ma è l’“ascolto” fatto di attenzione, di accoglienza, di disponibilità verso Dio. Non è il modo distratto con cui a volte noi ci mettiamo di fronte al Signore o agli altri: udiamo le parole, ma non ascoltiamo veramente. Maria è attenta a Dio, ascolta Dio.
Ma Maria ascolta anche i fatti, legge cioè gli eventi della sua vita, è attenta alla realtà concreta e non si ferma alla superficie, ma va nel profondo, per coglierne il significato. La parente Elisabetta, che è già anziana, aspetta un figlio: questo è il fatto. Ma Maria è attenta al significato, lo sa cogliere: «Nulla è impossibile a Dio»(Lc 1,37).
Questo vale anche nella nostra vita: ascolto di Dio che ci parla, e ascolto anche della realtà quotidiana, attenzione alle persone, ai fatti perché il Signore è alla porta della nostra vita e bussa in molti modi, pone segni nel nostro cammino; a noi dà la capacità di vederli. Maria è la madre dell’ascolto, ascolto attento di Dio e ascolto altrettanto attento degli avvenimenti della vita.
2. La seconda parola: decisione. Maria non vive “di fretta”,con affanno, ma, come sottolinea san Luca, «meditava tutte queste cose nel suo cuore» (cfr Lc 2,19.51). E anche nel momento decisivo dell’Annunciazione dell’Angelo, Ella chiede: «Come avverrà questo?» (Lc 1,34). Ma non si ferma neppure al momento della riflessione; fa un passo avanti: decide. Non vive di fretta, ma solo quando è necessario “va in fretta”. Maria non si lascia trascinare dagli eventi, non evita la fatica della decisione. E questo avviene sia nella scelta fondamentale che cambierà la sua vita: «Eccomi sono la serva del Signore…» (cfr Lc 1,38), sia nelle scelte più quotidiane, ma ricche anch’esse di significato. Mi viene in mente l’episodio delle nozze di Cana (cfr Gv 2,1-11): anche qui si vede il realismo, l’umanità, la concretezza di Maria, che è attenta ai fatti, ai problemi; vede e comprende la difficoltà di quei due giovani sposi ai quali viene a mancare il vino della festa, riflette e sa che Gesù può fare qualcosa, e decide di rivolgersi al Figlio perché intervenga:«Non hanno più vino» (cfr v. 3). Decide.
Nella vita è difficile prendere decisioni, spesso tendiamo a rimandarle, a lasciare che altri decidano al nostro posto, spesso preferiamo lasciarci trascinare dagli eventi, seguire la moda del momento; a volte sappiamo quello che dobbiamo fare, ma non ne abbiamo il coraggio o ci pare troppo difficile perché vuol dire andare controcorrente. Maria nell’Annunciazione, nella Visitazione, alle nozze di Cana va controcorrente, Maria va controcorrente; si pone in ascolto di Dio, riflette e cerca di comprendere la realtà, e decide di affidarsi totalmente a Dio, decide di visitare, pur essendo incinta, l’anziana parente, decide di affidarsi al Figlio con insistenza per salvare la gioia delle nozze.
3. La terza parola: azione. Maria si mise in viaggio e «andò in fretta…» (cfr Lc 1,39). Domenica scorsa sottolineavo questo modo di fare di Maria: nonostante le difficoltà, le critiche che avrà ricevuto per la sua decisione di partire, non si ferma davanti a niente. E qui parte “in fretta”.Nella preghiera, davanti a Dio che parla, nel riflettere e meditare sui fatti della sua vita, Maria non ha fretta, non si lascia prendere dal momento, non si lascia trascinare dagli eventi. Ma quando ha chiaro che cosa Dio le chiede, ciò che deve fare, non indugia, non ritarda, ma va “in fretta”. Sant’Ambrogio commenta: “la grazia dello Spirito Santo non comporta lentezze”(Expos. Evang. sec. Lucam, II, 19: PL 15,1560). L’agire di Maria è una conseguenza della sua obbedienza alle parole dell’Angelo, ma unita alla carità: va da Elisabetta per rendersi utile; e in questo uscire dalla sua casa, da se stessa, per amore, porta quanto ha di più prezioso: Gesù; porta il Figlio.
A volte, anche noi ci fermiamo all’ascolto, alla riflessione su ciò che dovremmo fare, forse abbiamo anche chiara la decisione che dobbiamo prendere, ma non facciamo il passaggio all’azione. E soprattutto non mettiamo in gioco noi stessi muovendoci “in fretta” verso gli altri per portare loro il nostro aiuto, la nostra comprensione, la nostra carità; per portare anche noi, come Maria, ciò che abbiamo di più prezioso e che abbiamo ricevuto, Gesù e il suo Vangelo, con la parola e soprattutto con la testimonianza concreta del nostro agire.
Maria, la donna dell’ascolto, della decisione, dell’azione.
Maria, donna dell’ascolto, rendi aperti i nostri orecchi; fa’ che sappiamo ascoltare la Parola del tuo Figlio Gesù tra le mille parole di questo mondo; fa’che sappiamo ascoltare la realtà in cui viviamo, ogni persona che incontriamo, specialmente quella che è povera, bisognosa, in difficoltà.

Maria, donna della decisione, illumina la nostra mente e il nostro cuore, perché sappiamo obbedire alla Parola del tuo Figlio Gesù, senza tentennamenti; donaci il coraggio della decisione, di non lasciarci trascinare perché altri orientino la nostra vita.
Maria, donna dell’azione, fa’ che le nostre mani e i nostri piedi si muovano “in fretta” verso gli altri, per portare la carità e l’amore del tuo Figlio Gesù, per portare, come te, nel mondo la luce del Vangelo. Amen.
papa Francesco, Roma, 31 maggio 2013

930 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA MAGGIO 2014

Universale “Perché i mezzi di comunicazione siano strumento al servizio della verità e della pace”.

Missionaria “Perché Maria, Stella dell'Evangelizzazione, guidi la missione della Chiesa nell'annuncio di Cristo a tutte le genti”.

Dei vescovi “Perché la Chiesa e la società non deludano la speranza e la fiducia dei giovani nel futuro”.

domenica 27 aprile 2014

929 - OMELIA NELLA MESSA DI CANONIZZAZIONE DI GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II

Papa Francesco nell’omelia della Messa di Canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II oggi, 27 aprile 2014, in piazza San Pietro, prendendo spunto dalla Lettura del Vangelo (Gv 20, 19-31) ha sottolineato come le piaghe di Gesù, scandalo per la fede, siano anche la verifica della fede: “sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi” – ha detto il Papa – “e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà”. San Giovanni XXIII e San Giovanni Paolo II, ha continuato il Santo Padre, “hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui”. I due papi santi hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria e, in particolare, Papa Francesco ha definito San Giovanni XXIII il Papa della docilità allo Spirito, e San Giovanni Paolo II il Papa della famiglia.

Queste le parole di Papa Francesco:

Al centro di questa domenica che conclude l’Ottava di Pasqua, e che san Giovanni Paolo II ha voluto intitolare alla Divina Misericordia, ci sono le piaghe gloriose di Gesù risorto. Egli le mostrò già la prima volta in cui apparve agli Apostoli, le sera stessa del giorno dopo il sabato, il giorno della Risurrezione.
Ma quella sera, come abbiamo sentito, non c’era Tommaso; e quando gli altri gli dissero che avevano visto il Signore, lui rispose che se non avesse visto e toccato quelle ferite, non avrebbe creduto. Otto giorni dopo, Gesù apparve di nuovo nel cenacolo, in mezzo ai discepoli, e c’era anche Tommaso; si rivolse a lui e lo invitò a toccare le sue piaghe. E allora quell’uomo sincero, quell’uomo abituato a verificare di persona, si inginocchiò davanti a Gesù e disse: «Mio Signore e mio Dio!».
Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà. San Pietro, riprendendo Isaia, scrive ai cristiani: «Dalle sue piaghe siete stati guariti».
San Giovanni XXIII e San Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello, perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù. Sono stati due uomini coraggiosi, pieni della parresia dello Spirito Santo, e hanno dato testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio, della sua misericordia.
Sono stati sacerdoti, vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria.
In questi due uomini contemplativi delle piaghe di Cristo e testimoni della sua misericordia dimorava «una speranza viva», insieme con una «gioia indicibile e gloriosa». La speranza e la gioia che Cristo risorto dà ai suoi discepoli, e delle quali nulla e nessuno può privarli. La speranza e la gioia pasquali, passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza.
Questa speranza e questa gioia si respiravano nella prima comunità dei credenti, a Gerusalemme, di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli. E’ una comunità in cui si vive l’essenziale del Vangelo, vale a dire l’amore, la misericordia, in semplicità e fraternità. E questa è l’immagine di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha tenuto davanti a sé. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa. Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo.In questo servizio al Popolo di Dio, san Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia. Mi piace sottolinearlo mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene. Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama.

venerdì 25 aprile 2014

928 - NON ABBIATE PAURA DELLA GIOIA

Nell’omelia della Messa celebrata il 24 aprile 2014, a Casa Santa Marta, papa Francesco ha parlato della “paura della gioia”.
Lo spunto glielo ha dato la Lettura del Vangelo (Lc 24, 35-48): al saluto di pace del Signore risorto, i discepoli, invece di gioire restano “sconvolti e pieni di paura”, pensando “di vedere un fantasma”.
 
E’ una malattia dei cristiani questa. Abbiamo paura della gioia.
E’ meglio pensare: ‘Sì, sì, Dio esiste, ma è là; Gesù è risorto, è là’. Un po’ di distanza.
Abbiamo paura della vicinanza di Gesù, perché questo ci dà gioia. E così si spiegano tanti cristiani di funerale, no? Che la loro vita sembra un funerale continuo. Preferiscono la tristezza e non la gioia. Si muovono meglio non nella luce della gioia, ma nelle ombre, come quegli animali che soltanto riescono ad uscire nella notte, ma alla luce del giorno no, non vedono niente. Come i pipistrelli. E con un po’ di senso dell’umorismo possiamo dire che ci sono cristiani pipistrelli che preferiscono le ombre alla luce della presenza del Signore.
E noi, tante volte, o siamo sconvolti, quando ci viene questa gioia, o pieni di paura o crediamo di vedere un fantasma o pensiamo che Gesù è un modo di agire: ‘Ma noi siamo cristiani e dobbiamo fare così’. Ma dov’è Gesù? ‘No, Gesù è in Cielo’. Tu parli con Gesù? Tu dici a Gesù: ‘Io credo che Tu vivi, che Tu sei risorto, che Tu sei vicino a me, che Tu non mi abbandoni’?.
La vita cristiana deve essere questo: un dialogo con Gesù, perché - questo è vero - Gesù sempre è con noi, è sempre con i nostri problemi, con le nostre difficoltà, con le nostre opere buone”.
Nella mia terra c’è un detto, che dice così: ‘Quando uno si brucia con il latte bollente, dopo, quando vede la mucca, piange’. E questi si erano bruciati con il dramma della croce e hanno detto: ‘No, fermiamoci qui; Lui è in Cielo; ma benissimo, è risorto, ma che non venga un’altra volta qui, perché non ce la facciamo’.
Chiediamo al Signore che faccia con tutti noi quello che ha fatto con i discepoli, che avevano paura della gioia: che apra la nostra mente: ‘Allora, aprì loro la mente per comprendere le Scritture’; che apra la nostra mente e che ci faccia capire che Lui è una realtà vivente, che Lui ha corpo, che Lui è con noi e che Lui ci accompagna e che Lui ha vinto. Chiediamo al Signore la grazia di non avere paura della gioia.

927 - LA PASQUA DEI DEBOLI PIÙ FORTE DELLA MORTE

Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile.
Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell'oscuro e del difficile. Penso soprattutto in questo momento ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile senectus ipsa morbus (la vecchiaia è per natura sua già una malattia). Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne o nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.
Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli».
Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello "star bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell'Oriente si scambiano in questi giorni «Cristo è risorto», «Cristo è veramente risorto» percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni, vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche nelle persone che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita interiormente.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me anziano, un po' debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, questa Pasqua 2007? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza?
Anzitutto questa Pasqua dice a me che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (San Paolo, Lettera ai Romani, 8,18).
Queste sofferenze sono anzitutto quelle del Cristo nella sua passione, per cui sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull'umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini. Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c'è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia.
In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18).
È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (ivi, 8,24). Sperare così può essere difficile, ma mi pare questa la via che ci permette di non rimanere schiacciati dai mali di questo mondo. Ed è una via tracciata da Dio stesso che vuole stare dalla nostra parte e che promette all'uomo la vita per sempre.
Più difficile è però per me l'esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c'è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso.
Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l'inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole della ventottenne Etty Hillesum, scritte il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità... La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione».
Uomini e donne così richiamano l'immagine del Salmo: «Nell'andare se ne va e piange, / portando la semente da gettare, /ma nel tornare viene con giubilo, / portando i suoi covoni» (Sal 126,6).
Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico. Ma al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni, anche se il suo impegno può testimoniare quella solidarietà umana che è l'auspicabile orizzonte di tutto il suo dinamismo.
L'interrogativo più radicale è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull'amore che è dato di cogliere anche in tali frangenti. C'è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita anche nella debolezza, che mi dice, «io sono la vita, la vita per sempre»? O almeno c'è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto?
È così che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla. 
di Carlo Maria Martini
5 aprile 2007

domenica 20 aprile 2014

926 - BUONA PASQUA!

Cristo Risorto - Chiesa di Chiampo
Quante volte nella nostra vita quotidiana abbiamo bisogno che ci venga detto: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo?” Quante volte abbiamo bisogno che questa frase ci riscatti dalla disperazione e dalla morte! Abbiamo bisogno che ci venga ricordato oggi, in mezzo al nostro popolo e alla nostra cultura, perché ci apriamo all’Unico che dà la vita, all’Unico che può provocare lo stupore ricco di speranza dell’incontro, all’Unico che non distorce la realtà ma ci regala la verità.
Oggi, Pasqua, abbiamo bisogno che ci venga annunciata con forza questa parola e che il nostro cuore debole e peccatore si apra all’ammirazione e allo stupore dell’incontro e possiamo ascoltare dalle Sue labbra la consolante parola: “Non aver paura, sono io!”. (Jorge Mario Bergoglio, 2007)

sabato 19 aprile 2014

925 - MARIA DI MAGDALA INCONTRA GESU'

Incontro con Maria di Magdala, Chiesa di Santa Maria la Almudena di Madrid
L'incontro del Risorto con Maria di Magdala, che lo riconosce e lo vuole trattenere. Lei si svela, proprio per ricordare il Cantico dei Cantici (cf Ct 4,1; 6,7).
Cristo ha un mantello totalmente d’oro, perché è il mantello della gloria di Dio.
Maddalena, per vivere veramente della vita vera, anche se è già risuscitata perché Dio le ha perdonato tutto ed è una donna nuova, deve ancora superare il suo amore possessivo, quell’amore che è solo l’inizio dell’amore. Questo amore, per essere veramente maturo, deve arrivare alla forma e alla misura della pasqua, dove non si stringe più niente per sé.
Cristo, elegantemente, si trattiene il mantello.

924 - LA CONFESSIONE DI FEDE DI MARIA DI MAGDALA

Maria di Magdala presso il sepolcro vuoto del suo Signore piange. Si mette a cercarlo, ma i suoi singhiozzi, le sue lacrime le appannano la vista e il cuore impedendole di riconoscere il Signore che, vivo, le sta davanti. Gesù si commuove e le si manifesta chiamandola per nome con un tono di voce che penetra nell'intimo della sua persona, ed ella esclama: "Rabbunì, Maestro mio!".
In un istante confessa la sua fede, il suo amore, la sua dedizione.
(Carlo Maria Martini, Omelia nella domenica di risurrezione, 2002) 

923 - IL GIARDINO NUOVO

«Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino vi era un sepolcro nuovo, in cui nessuno era stato ancora deposto. Là deposero Gesù» (Giovanni, 19, 41-42).

Quel giardino in cui si trova la tomba, dove viene sepolto Gesù, ricorda un altro giardino: quello dell’Eden. Un giardino che a causa della disobbedienza perse la sua bellezza e divenne desolazione, luogo di morte e non più di vita.
I rami selvatici che ci impediscono di respirare la volontà di Dio, come l’attaccamento al denaro, alla superbia, allo spreco della vita, vanno tagliati e innestati ora al legno della Croce.
È questo il nuovo giardino: la croce impiantata nella terra!
Da lassù, Gesù potrà ormai riportare tutto alla vita. Una volta ritornato dagli abissi infernali, dove Satana ha rinchiuso un gran numero di anime, avrà inizio il rinnovamento di tutte le cose.
Quel sepolcro rappresenta la fine dell’uomo vecchio.
E come per Gesù, anche per noi Dio non ha permesso che i suoi figli fossero castigati dalla morte definitiva. 
Nella morte di Cristo decadono tutti i troni del male, basati sull’avidità e la durezza del cuore.
La morte ci disarma, ci fa capire che siamo esposti a un’esistenza terrena che ha un termine.
Ma è davanti a quel corpo di Gesù, deposto nel sepolcro, che prendiamo coscienza di chi siamo. Creature che, per non morire, hanno bisogno del loro Creatore.
Il silenzio che avvolge quel giardino ci permette di ascoltare il sussurro di una brezza leggera: «Io sono il Vivente e sono con voi» (cfr. Esodo, 3, 14).
Il velo del tempio è squarciato. Finalmente vediamo il volto del nostro Signore.
E conosciamo in pienezza il suo nome: misericordia e fedeltà, per non restare mai confusi, nemmeno davanti alla morte, perché il Figlio di Dio fu libero in mezzo ai morti (cfr. Salmi, 88, 6).
(Meditazione di Mons. Bregantini, XIV stazione alla Via Crucis del Colosseo, 18 aprile 2014)

venerdì 18 aprile 2014

922 - DEPOSIZIONE DALLA CROCE

Santuario della Madonna della Salute degli Infermi, Pozzoleone Scaldaferro (VI)
L’umanità, quella carne che Maria ha tessuto per la salvezza del mondo è morta, è stata sopraffatta dal male, perché l’umanità è destinata alla tomba. Tutti sono morti e anche noi moriremo, come Cristo è morto. Ma quando Cristo muore, viene messo nelle nostre mani: nel vangelo si dice che Dio ha dato suo Figlio nelle nostre mani.
Ma noi eravamo nemici di Dio, una generazione perversa e peccatrice, e abbiamo distrutto Cristo, gli abbiamo scaricato addosso tutta la nostra violenza e Lui è crollato. E nelle nostre mani è arrivato morto.
Il primo gesto di tenerezza – si guardi il volto di Giuseppe di Arimatea, che può essere anche l’apostolo Giovanni – dell’uomo verso Dio è quello di questo uomo, che dopo che Dio si è dato in modo da farci vedere quanto è folle il suo amore e quanto Lui si fida di noi (mentre noi non ci fidiamo di Lui, ritenendo di sapere meglio di Lui, ragionando secondo il peccato, che cosa è bene per noi) fa un gesto di tenerezza su Cristo morto.
E allora Giuseppe di Arimatea “diventa una colonna” che sostiene questo corpo morto. Maddalena ha i capelli sciolti, che scivolano verso i piedi di Cristo. Questi capelli di Maddalena conoscevano già bene i piedi di Cristo, avendoli accarezzati e unti. Ma accarezzando il Signore è stata salvata e si era sentita dire da Cristo: “ti è perdonato, non peccare più”. Questo non l’aveva più scordato e da lì era iniziata la sua guarigione. La guarigione infatti comincia con il perdono del peccato. In quel momento è nata una donna nuova. Qui Maddalena guarda le ferite e con il suo amore folle porta questo peso enorme di Cristo.
L’immagine della deposizione è stata composta sulla parete dietro l’altare dove si celebra, con l’intenzione di far vedere come la deposizione di Cristo avviene sull’altare, richiamando la tradizione antica. Tuttora i preti bizantini usano un corporale dove viene disegnata questa scena, dove, celebrando, vedono il Cristo nella tomba.
Santuario della Madonna della Salute degli Infermi, Pozzoleone Scaldaferro (VI)

921 - L'AMORE E' PIU' FORTE DELLA MORTE

«Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe; anche lui era diventato discepolo di Gesù. Questi si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù.

Pilato allora ordinò che gli fosse consegnato » (Matteo , 27, 57-58).
Prima di essere sepolto nella tomba, Gesù viene consegnato finalmente a sua Madre.
È l’icona di un cuore strappato che ci dice che la morte non impedisce l’ultimo bacio della madre al figlio suo.
Prostrata sul corpo di Gesù, Maria s’incatena in un abbraccio totale a Lui.
Questa icona è chiamata semplicemente "Pietà".
È straziante, ma mostra che la morte non spezza l’amore.
Perché l’amore è più forte della morte! L’amore puro è quello duraturo.
La sera è giunta. La battaglia è vinta. L’amore non è stato spezzato.
Chi è pronto a sacrificare la sua vita per Cristo, la ritroverà.
Trasfigurata, oltre la morte.
Lacrime e sangue sono mescolate in questa tragica consegna.
Come la vita nelle nostre famiglie, che, a tratti, è travolta da perdite improvvise e dolorose, con un vuoto incolmabile, specie nella morte di un figlio.
Pietà allora significa farsi prossimi dei fratelli che sono nel lutto e non si danno pace.
È carità grande prendersi cura di chi sta soffrendo nel corpo piagato, nella mente depressa, nell’animo disperato.
Amare fino alla fine è l’insegnamento supremo lasciatoci da Gesù e da Maria.
È la quotidiana fraterna missione di consolazione, che ci viene consegnata in questo fedele abbraccio tra Gesù morto e la sua Madre Addolorata.
Meditazione di Mons. Giancarlo Bregantini, XII stazione Via Crucis al Colosseo

920 - LA CROCEFISSIONE DI GESU'


Chiesa di Santa Chiara del Pontificio Collegio Francese
La crocifissione è il momento cruciale della manifestazione dell’Amore di Dio per l’uomo. Il Figlio di Dio si consegna completamente all’uomo, lascia che l’uomo faccia di Lui ciò che vuole. Dio ci ama tanto da darci il suo Figlio unigenito (cf Gv 3,16) e da permetterci di scatenare su di Lui tutto il male che portiamo dentro. Ma, proprio inchiodandolo sulla croce, l’uomo scopre quanto è buono il Signore. Davanti a un Dio così umiliato, non prova paura e può rivelargli tutta la sua iniquità.
Ma non è automatico scoprire in questo evento la rivelazione dell’amore divino. Senza la sua dimensione divina, la crocifissione rimane soltanto un atto criminale, una terribile sofferenza senza alcun senso. Ci vuole lo Spirito Santo per poter dire che Gesù è il Signore (cf 1Cor 12,3) e che quindi può anche superare la morte.
La Chiesa, infatti, ha cominciato a rappresentare la croce e il crocifisso solo quando la fede nella divinità di Cristo era già così consolidata da non esserci dubbio che si trattava del Figlio di Dio, per cui la croce non era più solo scandalo e stoltezza, ma strumento di salvezza. Perciò, nel primo millennio le scene della crocifissione conservavano dei chiari segni della presenza divina: il nimbo come simbolo di divinità e santità; gli occhi di Cristo aperti per affermare che la vita vince la morte, ecc., in modo che chi la vedeva potesse dire, come il centurione, “veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).
In questa scena Cristo non è nudo come di solito nella crocifissione, ma porta l’abito del sommo sacerdote, che entra una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue, procurandoci così una redenzione eterna (cf Eb 9,12).
E’ inchiodato, ma allo stesso tempo già trasfigurato, in gloria.
Accanto a Lui c’è Maria. Con il capo reclinato e la mano sul petto, esprime l’atteggiamento contemplativo di colei che ha il pensiero assorbito nel cuore da ciò che vede. Immagine della Chiesa, ascolta la sapienza della croce: riesce a fare una lettura spirituale dell’evento davanti ai suoi occhi. E’ lei la nuova Eva. Infatti, come Eva era uscita dal costato di Adamo, così la nuova Eva – la Chiesa, nasce dal suo costato, per generare figli per il Padre.
Maria-Chiesa è avvolta nel mantello di Cristo, il mantello della gloria.
Con la morte di Cristo l’umanità finalmente si scopre amata, rivestita dell’amore divino.
La croce di Cristo ci rivela che la sofferenza è parte integrante dell’amore. Chi ama prima o poi soffre. Ma solo l’amore può convincerci del senso della sofferenza ed è l’unica forza capace di trasfigurarla
Chiesa di Santa Chiara del Pontificio Collegio Francese

giovedì 17 aprile 2014

919 - LA CROCE "RESTAURO" DELLA CREAZIONE

La creazione, che avrebbe dovuto essere fonte di gioia e di luce, fu sorgente di morte e di tenebre a causa dell’uomo; la crocifissione, che era motivo di morte e di tenebre, diventa sorgente di vita e luce, a causa del Figlio dell’uomo.
Nessuna tristezza offusca la gioia che promana dalla vivida luce della Croce del Risorto. Tutte le liturgie, infatti, che celebrano la «Croce», hanno un impianto «esaltante», esultante e gioioso con uno schema festoso, dove la stessa idea di morte è trasformata in ragione di esultanza: "Di null’altro mai ci glorieremo se non della croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione.
Per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati" (Gal 6,14) canta l’antifona d’ingresso della festa dell’Esaltazione della Croce.
(Paolo Farinella, prete - Parrocchia di S.Maria Immacolata e S.Torpete Genova)

918 - ADORIAMO LA CROCE

Chiudiamo gli occhi e immaginiamoci di essere a Gerusalemme, fuori le mura, sul Gòlgota, ai piedi della Croce. Il mondo trema, il soldato grida che Gesù è Dio, il popolo è sconvolto, le autorità religiose sono confuse, i soldati si dividono le vesti, le donne amiche piangono e tremano, i discepoli sono scomparsi, tranne il discepolo che prenderà in affido la “Madre” e che a lei sarà affidato.
L’universo intero e l’umanità hanno trovato il loro fulcro: il Crocifisso che regna dal suo patibolo di morte, trasformato in trono di perdono e di gloria. “Padre, perdona lo-ro…”.
Da quel trono scende lo Spirito Santo: “E, chinato il capo, consegnò lo spirito”. Per Giovanni, l’ora della morte coincide con la Pentecoste. Il Calvario è il nuovo monte Sion da dove Dio spalanca le braccia all’umanità intera: il velo del Tempio si spezza in due aprendosi all’ingresso di Giudei e Gentili. Nulla s’interpone più tra Dio e il suo popolo, nell’umanità e nel corpo del Figlio di Maria.
Adoriamo il Crocifisso e chiediamo perdono per le volte che ne abbiamo fatto uno strumento inadeguato della nostra cultura e civiltà occidentali, usandolo per fini atei che nulla hanno a che fare con la fede. Il Crocifisso non è un ornamento o un pezzo di antiquariato, è solo “scandalo per i Giudei e obbrobrio per i Greci”: è questo scandalo che noi dobbiamo proclamare davanti al mondo e in tutte le culture e non solamente davanti alla civiltà occidentale. Quando lo identifichiamo con «una cultura o civiltà», noi lo escludiamo da tutte le altre. Il bacio che diamo sia segno di un amore sconfinato come infinito è il cuore stesso di Dio che oggi è crocifisso per me.
(Paolo Farinella, prete - Parrocchia di Maria Immacolata e san Torpete Genova)

917 - IL PIANTO DI PIETRO

Il pianto di Pietro - Santa Maria dell'Almudena (Madrid)
Pietro non riconosce il suo Signore nel crocefisso: si scandalizza, come tutti. La sua caduta, prevista e predetta, gli mostrerà che Gesù è fedele anche nella sua infedeltà.
Lui conosce un altro Cristo (quello che guariva i malati e risuscitava i morti,davail pane e confondeva i nemici) per il quale era disposto anche a morire; questo invece (povero e umiliato) lo sconcerta e lo scandalizza. Il velo, che è ancora sul suo cuore, gli impedisce di riconoscere il Signore. Gli rimangono in mano solo i cocci delle presunzioni con cui si era identificato.
Il pianto squarcia questo velo e Pietro scopre la sua verità di uomo che non conosce il Signore e, insieme, la verità di Dio che muore per lui che lo rinnega. Al di là di ogni illusione, vede chiaramente se stesso. Ma il ricordo della Parola di Gesù gli impedisce di cadere nella disperazione e lo strappa dall'inferno del proprio fallimento.
 
La nostra fedeltà, Signoer Gesù, viene meno e non riconosciamo più, nel tuo volto sofferente, colui che è venuto a salvarci: ridesta la nostra fede in te perchè possiamo fondarci unicamente sulla roccia del tuo amore che mai viene meno. Amen
(padre Silvano Fausti, Alla scuola di Matteo)

mercoledì 16 aprile 2014

916 - L'AMORE E IL DONO

Lavare i piedi e donare se stesso nel pane e nel vino. Sono questi i gesti memorabili con cui Gesù manifesta risolutamente il mistero della vera grandezza di Dio, che è l'Amore. Lo fa nel contesto di quella che viene definita "l'ultima cena", riguardante la commemorazione della Pasqua ebraica della liberazione del popolo d'Israele dalla schiavitù dell'Egitto e del passaggio portentoso del Mar Rosso e proprio per questo rende manifesta l'esaltazione dell'amore perché esso inizia dalla semplicità e dal nascondimento.
La Pasqua per gli Ebrei è una festa intima, da svolgersi solamente in famiglia: anche se il tempio di Gerusalemme, già prima di Pasqua, accoglie le vittime animali destinate al sacrificio, esso non è il luogo sacro in cui è prescritto che si festeggi la "festa degli azzimi" (appunto Pasqua), ma soltanto le abitazioni private hanno questa prerogativa: consumando un agnello per famiglia, la sera si fa festa a casa per la lieta ricorrenza della liberazione di Israele e in tale occasione il Padre di famiglia rende grazie per il pane benedetto e benedice a sua volta i propri figli. Una festa che deve avere del familiare insomma, e che esclude ogni forma di grandezza e di clamorosità, concentrandosi piuttosto sulla bellezza di ciò che è puro e semplice.
Orbene, anche Gesù consuma la Cena in un clima di serena fraternità con la propria famiglia. I discepoli sono tutti riuniti attorno a lui che ha preso posto a tavola e consumano il pasto nonostante sappiano che Gesù è destinato di li a poco ad essere consegnato agli uomini che lo condanneranno a morte e lo uccideranno. Essi sono attoniti e sgomenti, anche perché sanno della nefasta presenza di un traditore che uscirà dal loro ambito, ma ugualmente si appropriano della "festosità" che Gesù comunica loro nel clima di familiarità di comunione intima che poi si effonderà per ogni dove: il Maestro da' prova dell'amore di Dio Padre concedendo se stesso in una dimensione del tutto piccola e semplice, di estrema umiltà e ristrettezza, perché il vero amore consiste innanzitutto nelle cose semplici prima ancora che nelle grandi occasioni. Nel silenzio, nella semplicità e nel nascondimento, nella fuga dal plauso e dalla vanagloria, nel rifiuto delle umane ricompense, solo lì l'amo re per gli altri vince la sua prova di identità, perché solo in queste dimensioni vi è la possibilità di usare sincerità e schiettezza d'animo. E in fine dei conti altro non è che questo. Scrive Ratzinger: "L'amore in astratto non avrà mai forza nel mondo, se non affonda le sue radici in comunità concrete, costruite sull'amore fraterno. La civiltà dell'amore si costruisce soltanto partendo da piccole comunità fraterne. Si deve cominciare dal particolare per arrivare all'universale." E quello che Gesù manifesta ai suoi discepoli è l'amore di Dio che giungerà a salvare universalmente tutti gli uomini prendendo corpo da una realtà familiare ristretta quale è quella degli apostoli. Verso questi ultimi, Gesù si atteggia con un comportamento senza precedenti che non avrebbe necessità di commento alcuno perché si spiega da stesso: egli si cinge le vesti, si china davanti a ciascuno dei discepoli e lava loro i piedi, asciugandoli con la tovaglia di cui si è conto alla vit a. Manifesta così loro, in un semplicissimo gesto speciale ma di incommensurabile nobiltà, l'amore nei loro confronti di un Dio che in se stesso è Mistero, in quanto in Lui l'amore è Dono continuo del Padre e del Figlio nello Spirito ma che tuttavia esce da se stesso per riversarsi su tutti noi. Lavando i piedi ai discepoli Gesù rende questi destinatari dell'amore sommo di Dio che si rende immediatamente spontaneo e evidente e che si concretizza in cose semplici e familiari. Esso tuttavia non è destinato a restare racchiuso e ghettizzato all'interno di questa stanza appositamente ammannita a festa, ma deve protrarsi ben oltre, deve essere diffuso e comunicato: "Voi mi chiamate Maestro e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi" Gesù si mostra di fatto maestro d'amore sulle cui orme dovranno cam minare tutti semplicemente amandosi gli uni gli altri, fino al punto da lavarsi anche reciprocamente i piedi. Fino al punto cioè da essere talmente eroi da essere capaci di mutuo servizio fino all'inverosimile. Anche e soprattutto nelle cose comuni e ordinarie.
Ma come se non bastasse Gesù mostra ancor di più questa dimensione totalizzante dell'amore del Padre, concedendo interamente se stesso ai suoi nello spezzare il pane. Un tale atto da parte del padre di famiglia configura già nell'antico Israele la volontà di donare e di condividere, di ripartire interamente ciò che è fondamentalmente nostro. Nell'ottica di Gesù, tale atto non solamente è indice di dono ma è Dono per eccellenza poiché Gesù manifesta di donare interamente se stesso nel suo Corpo e nel suo Sangue:. "Questo è il mio corpo = Questo sono io, corpo, sangue, anima e divinità." Già in altri contesti Gesù aveva invitato tutti a "mangiare la sua carne e a bere il suo sangue" (Gv 6) per essere il pane vivo disceso dal Cielo ma questo mangiare assume valenza sacramentale adesso che lui formula queste parole che propongono in anticipo ciò che avverrà sul Golgota per la salvezza intera dell'umanità. La Cena è l'anticipazione della morte di Gesù sulla croce e la croce è la massima espressione dell'amore di redenzione che si attua a vantaggio di tutti. Gesù lo realizza e si fa apportatore di quella novità assoluta, definita Regno di Dio, vivendo la quale si è uomini in pienezza perché si realizza se stessi donandocisi continuamente agli altri e instraurando sull'amore ogni sorta di relazione. A partire dal dono che Gesù fa di se nella Cena, prefigurativo del Golgota, anche gli uomini sono chiamati a diventare dono gli uni per gli altri pena la loro vacuità e inutilità.
E' inutile cercare per ogni dove la felicità quando non si comprende che essa è dentro di noi. Ed è tempo perso cercarla nelle cose che si possiedono o in quelle a cui si tende; Oscar Wilde che essa "non consiste nell'avere quello che si desidera, ma nel desiderare quello che si ha" e anche in questo caso essa interpella il nostro intimo e la nostra volontà chiamando in causa il dare e non il ricevere: felici si è quando si è capaci di dare senza riserve noi stessi agli altri. La lavandai dei piedi e l'Eucarestia sono allora il segreto reale dell'essere felici. Che attende di essere sfruttato.
padre Gian Franco Scarpitta

915 - L'ULTIMA CENA

Tintoretto - Ultima Cena
Ci lasciamo aiutare da ”Ultima cena” del Tintoretto (1518-1594) esposta nella chiesa di San Giorgio a Venezia.
Jacopo Robusti detto il Tintoretto perché figlio di un tintore, nasce proprio nell’anno in cui in Germania Martin Lutero espone sulla porta del Duomo di Wittenberg le sue tesi che danno origine alla riforma protestante, di cui un punto fondamentale è la negazione della transustanziazione, ossia del passaggio del pane e del vino in corpo e sangue di Gesù durante la consacrazione.
Il pittore dipinse più volte questo episodio evangelico: lo si può ammirare in alcune chiese di Venezia e soprattutto nella Scuola grande di San Rocco, ma in tutte non troviamo la luce presente in quelle di San Giorgio, una delle sue ultime opere prima della morte avvenuta nel maggio del 1594.

Siamo nella stanza del piano superiore; è calata la notte. Due sono le fonti di luce: una lampada in alto a sinistra e la persona di Gesù stesso, il quale in piedi distribuisce la comunione agli apostoli. Meglio distribuisce se stesso perché fa della sua vita il dono per eccellenza.
Corpo e sangue ossia la vita, ciò che di più bello e importante si possiede. Corpo, le mie doti, capacità professionali, i miei beni materiali, il mio fisico; sangue, il mio essere persona unica e irripetibile: tutto ciò fa, costituisce la vita e questo dà origine e sostanza al rapporto tra le persone.
Da dove derivano tutte le incomprensioni, difficoltà nei rapporti anche dopo anni di matrimonio, diffidenze e scetticismi nello scoprire la persona a cui affidare la propria esistenza se non proprio dal non mettere in comunione la vita ma solo una parte di essa.
“Sì, mi rispetta, è un gran lavoratore, non ci fa mancare niente, ma…non c’è; non si dialoga, fa la sua vita ma non mi fa sentire importante perché c’è sempre qualcosa, se non qualcuno che viene prima; è una brava persona, seria, cordiale, rispettosa…ma c’è un qualcosa che tiene per sé, per cui impegnarsi definitivamente non se la sente”.
Gesù sta in piedi come prima si era levato e inginocchiato per lavare i piedi ai discepoli; un gesto tanto disdicevole, riservato agli schiavi, che pure Abramo nella sua ospitalità si era rifiutato di fare allorquando accolse i tre angeli sotto la sua tenda.
La tavola taglia in diagonale la scena e suggerisce l’idea di tante mense sulle quali lungo la storia si è ripetuto il memoriale del dono che Gesù ha fatto di se stesso, indipendentemente dai meriti degli apostoli. Da allora in poi questo è il criterio, la cartina di tornasole di un amore autentico: la gratuità. Chi non è capace di un gesto di generosità gratuita, non si educa alla gratuità…molto difficilmente sarà capace di amare. La realtà lo dimostra quotidianamente. Le scelte, gli episodi, i gesti…ne sono una conseguenza, ma la radice sta in questa incapacità perché succubi della logica del tornaconto e del guadagno come primo criterio.
Mi diceva sconsolato un professore di scuola superiore: nella mia classe abbiamo fatto una raccolta di fondi per…raccolto € 13, neanche 1 euro a testa. Che delusione! Come fan male certe notizie, come quella di stasera: in una vicenda di fuga di soldi all’estero, nei paradisi fiscali, è coinvolto anche un sacerdote.
Anche nel nostro quadro non mancano le tinte fosche, delle incomprensioni, dell’individualismo, del latrocinio, del baratto; come pure il brano del vangelo ascoltato poco fa è ambientato nella notte. Osserviamo i due estremi della mensa: in alto, a destra, vi sono tutti tanti che si affaticano al forno per produrre il pane da portare sulla mensa. Nella consacrazione non c’è nulla di magico o strano, v’è solo il desiderio ostinato, direi, di Gesù di rimanere con noi a partire dal gesto della donazione di sé, il gesto più grande.
Perché il legame con una madre più che con un padre è imprescindibile? Perché si è ricevuta la vita, il massimo che si può sperare di avere. E nella Bibbia Dio è paragonato a una madre.
All’estremità opposta vi è un mendicante appena sopraggiunto e trattenuta da un discepolo, quasi a non disturbare, meglio a non confondere la mensa eucaristica con la mensa dei frati di Viale Piave a Milano. Ci vogliono entrambe certo ma si sappia chiaramente che la seconda è figlia – non madre– della prima e proprio per tale ragione è aperta a tutti.
Che molti si avvicinano alla parrocchia grazie al centro Caritas sta bene, ma che si riduca la comunità cristiana a un centro assistenziale, no! Perché sua ragion d’essere è l’annuncio del vangelo e della fede in Gesù.
Una fede rappresentata dal Tintoretto nella lampada, in alto a sinistra: grazie a questa luce ci accorgiamo della presenza degli angeli, a testimonianza di quel “panis angelicus” spezzato per tutti. Una donna, domestica, lo distribuisce su un piatto a un altro inserviente e così di mano in mano è giunto fino a noi.
Qui la cena è al termine: un cane attende un avanzo da mangiare, un gatto va alla ricerca di qualcosa da mangiare, canestri di frutta e brocche qua e là...ma l’Eucarestia non termina con l’andate in pace perché si è chiamati a essere testimoni nella vita del nome di Cristo, ossia del suo stile di vita.
Per concludere, due ultime osservazioni.
- L’inserviente, a destra, si gira di scatto e indica Giuda con la mano. Un Giuda solitario, vestito in modo originale, diverso dagli altri; è l’unico apostolo a non essere illuminato; la sua posizione è uguale e contraria a quella dell’apostolo Giovanni. Non basta essere presenti: ciò che conta è condividere.
- A seconda della posizione dell’osservatore, le linee prospettiche cambiano. Fate la prova. Chi non muta è Gesù, vero fulcro della scena. Il teologo Guardini notava che già qui, prima ancora che gli eventi precipitino, Gesù è solo perché sa. “Non vi è nessun ponte tra i discepoli e Lui. Non sono accanto a Lui nell’intimità della comprensione ma davanti a Lui smarriti”. L’Eucarestia segna un confine: i discepoli che hanno accompagnato Gesù fino a questo momento, da qui in poi saranno dispersi. Ma poiché si sono nutriti di quel pane e di quel vino, il corpo-sangue di Colui che si è donato a noi, potranno sempre ritrovarsi come comunità attorno all’altare dell’unico Signore.
(tratto da Qumran)

 

sabato 12 aprile 2014

914 - CERCARE GESU'

Una cosa colpisce nei Vangeli che raccontano i giorni che precedono la Passione: tutti cercano Gesù, sia pure in modi diversi. Lo cerca la folla, prima curiosa di vedere lui e Lazzaro, e poi, nel Vangelo di oggi, festante nell’accoglierlo a Gerusalemme. Si domandano se avrà il coraggio di venire o la paura di farsi vedere e forse lo criticheranno: «Perché é venuto? Chi crede di essere? Cosa faranno adesso i nostri capi?». Papa Francesco continua ad ammonirci contro i pettegolezzi: «Le chiacchiere dividono la comunità, distruggono la comunità. Sono le armi del diavolo».
Lo cercano i sommi sacerdoti e i farisei, per arrestarlo e condannarlo. Sono rosi dalla gelosia e dall’invidia, che tentano anche noi. Anche questo ha detto Francesco: «La gelosia, come l’invidia, porta a uccidere. È stata proprio la porta dell’invidia, per la quale il diavolo è entrato nel mondo: “Per l’invidia del diavolo è entrato il male nel mondo”, dice la Bibbia. La gelosia e l’invidia aprono le porte a tutte le cose cattive e dividono la comunità».
Una cosa è certa: tutti cercano Gesù. Nessuno può farne a meno, anche solo per contestarlo! Gesù è la grande domanda dell’umanità. Lo si può rifiutare e negare, ma non si può evitare di interrogarlo: «Sei Tu? Perché sei venuto a disturbarci?», domanda a Gesù il Grande Inquisitore ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij; «Chi sei, dolce luce, che m’inondi e rischiari la notte del mio cuore?», prega Edith Stein; «Cristo, pensoso palpito, Astro incarnato nell’umane tenebre», canta Giuseppe Ungaretti.
Anche Maria lo cerca, ma con amore. A Gesù dà tutto quello che ha: quei 327 grammi di nardo erano tutto il suo tesoro, il suo investimento per il futuro; valevano un anno di lavoro presso un padrone generoso, senza spendere neppure un centesimo! Come vivrà ora? Come si garantirà la vecchiaia? A Gesù dona tutta se stessa: i capelli sono il segno della bellezza per ogni donna, ma asciugando i piedi a Gesù, li rovinerà, perderà la sua bellezza e si esporrà all’ironia delle compagne. Non le importa: ama Gesù. Il nardo, infatti, è il profumo dell’amore: se ne parla solo nel Cantico dei Cantici! Maria ci insegna che il vero discepolo ama il suo Signore ed è pronto a dare tutto per lui!
Anche Giuda ha cercato Gesù. È un discepolo, amato e stimato da Gesù, che gli ha affidato il denaro della comunità. Ma Giuda calcola, critica, è ipocrita: ha subito valutato quel profumo e criticato lo spreco, perché non ha colto l’amore del gesto; dice belle parole (i poveri!), cui non corrispondono i fatti e il cuore (in realtà pensa per sé). Forse abbiamo tutti un poco del cuore di Giuda, quando ci riempiamo la bocca di belle parole, ma non sappiamo vedere la bontà di cuore nelle azioni dell’altro.
È possibile essere come Maria? Dieci anni fa un seminarista, Alessandro, prima di volare in Cielo, scrisse: «Voglio essere come nardo, per camminare con te, amare con te le persone. Ho trovato un tesoro, una perla preziosa; non posso sprecare una così bella e grande occasione». Non potremmo dirla anche noi?
Monsignor Ennio Apeciti

913 - LA RISURREZIONE DI LAZZARO


Giovanni Battista Caliari, Resurrezione di Lazzaro, 1877,
palazzo Vescovile di Verona
La liturgia della parola di questa domenica ci invita a meditare sul segno della resurrezione di Lazzaro e lo pone come profezia della resurrezione di Gesù. Il racconto della risurrezione di Lazzaro è una delle “storie di segni” che racconta san Giovanni. Si tratta qui di presentare Gesù, vincitore della morte. Il racconto culmina nella frase di Gesù su se stesso: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me non morrà in eterno”. La Resurrezione di Lazzaro, da un originale di Giovanni Francesco Caroto (Verona, circa 1480-1555) è conservato nel palazzo Arcivescovile di Verona. Il dipinto, un olio su tela si trova nella ex-sacrestia, ora cappella invernale, sopra la porta che conduce al coro, racchiuso da una modanatura in gesso. Chiamato dal gesto perentorio di Gesù, raffigurato sulla sinistra in veste rossa e mantello blu col braccio destro teso, il morto esce dal sarcofago – sofferente, grato eppur incredulo – e siede sul bordo dell’avello, impacciato nei movimenti dalle bende che gli legano i polsi e le caviglie. Alle spalle del Cristo vi sono tre dei discepoli che lo avevano accompagnato da Gerusalemme fino a Betània per “risvegliare l’amico che si era addormentato”. Sulla parte destra della scena, alle spalle del risorto, ecco le sorelle di Lazzaro. La più giovane, Maria, con la chioma fluente bene in evidenza, «quella che aveva unto il Signore con profumo e gli aveva asciugato i piedi con i capelli», libera il fratello dal sudario che gli avvolgeva il viso. La più matura, Marta, è ritratta con il capo velato mentre, incrociando le braccia davanti al busto, cerca di proteggersi dall’enormità dell’evento a cui sta assistendo. Alle loro spalle, il gruppo eterogeneo dei Giudei che, in visita dalle due donne per consolarle, le avevano viste allontanarsi in fretta assieme a Gesù e le avevano seguite supponendo che andassero alla tomba per piangervi.

Colui che crede in Gesù ha già una parte di questi doni della fine dei tempi. Egli possiede una “vita senza fine” che la morte fisica non può distruggere. In Gesù, rivelazione di Dio, la salvezza è presente, e colui che è associato a lui non può più essere consegnato alle potenze della morte.
Sara Veronesi




sabato 5 aprile 2014

912 - 5 DOMENICA DI QUARESIMA

Il Vangelo di oggi canta l’amicizia. Lazzaro è amico di Gesù. Egli non fa nulla, non dice nulla: una sola cosa è importante, che Gesù gli vuole bene. Ognuno di noi è Lazzaro, perché per Gesù non siamo solo discepoli, ma soprattutto amici e lo dirà proprio durante l’Ultima Cena: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Giovanni 15,15). Ci vuole bene; è pronto a morire per noi; piange per noi, proprio come fa in questo Vangelo. Accanto all’amico Lazzaro c’è l’amico Tommaso. Quando sente queste parole, non ha più dubbi e incalza i compagni: «Andiamo anche noi a morire con lui!». L’amico è pronto a morire per l’amico. Gesù è pronto a morire per noi, suoi amici. Vero discepolo è non chi crede solo in Gesù, ma chi crede nella sua amicizia e vuole essere e vivere come un suo amico! Ci sono altre due amiche: Marta e Maria. Sono loro che mandano a chiamare Gesù e gli corrono incontro. Loro credono in Gesù e nella sua amicizia per loro e per Lazzaro. Marta e Maria ci insegnano che l’amicizia di Gesù contiene un dono grandioso: chi è suo amico ha la vita eterna. Lazzaro, Tommaso, Marta e Maria: l’essere amici di Gesù ci impegna a essere amici tra noi; il voler bene a Gesù comporta il volerci bene tra noi.
Mons. Ennio Apeciti