Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

sabato 30 giugno 2012

702 - V DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il brano del Vangelo secondo Giovanni (12, 35-50) riporta la parte conclusiva dell’ultimo discorso di rivelazione pronunziato da Gesù prima di affrontare l’ora del suo passaggio da questo mondo al Padre. Esso rappresenta l’estremo appello rivolto ai Giudei, irriducibili nell’avversione al Signore, a credere in lui come luce (v. 35-36). Potremmo dire che i vv. 37-43 rappresentano quasi un bilancio della sua attività di rivelatore del Padre, avvalorata da «segni così grandi compiuti davanti a loro», il primo dei quali è quello dell’«acqua mutata in vino alle nozze di Cana» e l’ultimo è quello della risurrezione di Lazzaro. Eppure Gesù deve registrare il perdurare di molti suoi interlocutori nell’ostinata incredulità e lo fa alla luce della Scrittura e in particolare di un passo del profeta Isaia 6,9-10 (cfr. vv. 38-40). Per questo egli compie un estremo tentativo di far aprire i loro occhi e il loro cuore indurito (cfr. v.40), quasi sintetizzando il contenuto della sua opera, che consiste nel portare a compimento la rivelazione di Dio proprio nella sua persona. Egli, infatti, dice le parole che Dio «gli ha ordinato di dire» perché gli uomini, credendo, sfuggano alla condanna e partecipino alla vita eterna ovvero alla comunione filiale con lui ( vv49-50). 
Nell’alleanza di Dio con Abramo, destinato a diventare «padre di una moltitudine di nazioni» (Lettura: Genesi 17,4-5), si manifesta anzitutto la grandezza di Dio che si rivela come l’Onnipotente. È sua imperscrutabile libera iniziativa la decisione di stabilire un rapporto di alleanza con Abramo. Alleanza che costituisce come una pietra miliare nel cammino della storia della salvezza nella quale si dispiega il mirabile disegno divino.
Di Dio sorprende la grandezza e la magnanimità delle sue promesse ad Abramo, alle quali rimarrà per sempre fedele. In Abramo colpisce la decisa immediata intima adesione a quanto Dio gli comunica, significata esteriormente nel gesto della prostrazione «con il viso a terra» (v. 3) davanti a lui e, quindi, dalla disponibilità a portare, con la circoncisione, il segno esterno e indelebile della consegna di tutto sé stesso alla Parola divina.
Ha dunque ragione l’Apostolo Paolo a sostenere che Abramo fu reso giusto, e dunque gradito agli occhi di Dio, non tanto per il segno della circoncisione che portava sul suo corpo, ma per la fede con la quale ha prontamente aderito alla Parola di Dio ben prima di compiere su di sé la circoncisione (cfr. Epistola: Romani 4,10-11). Con ciò Abramo è davvero il «padre di tutti i credenti», vale a dire di quegli uomini, sia provenienti dall’antico popolo dell’Alleanza (i circoncisi) che dalle “genti” (cfr. vv. 11-12), i quali accolgono e custodiscono con fede ogni parola che esce dalla bocca di Dio e rimangono ad essa fedeli.
Parola che noi riconosciamo nella persona storica di Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio che è stato mandato nel mondo per “dire” tutto ciò che il Padre gli ha ordinato di dire per la nostra salvezza (cfr. Vangelo: Giovanni 12,49). Chi lo ascolta, ascolta Dio, chi lo vede, vede Dio e viene chiamato a partecipare alla vita eterna, a condividere cioè la comunione della stessa vita divina.
In questa domenica siamo dunque esortati a seguire l’esempio di Abramo aprendo prontamente e con fede il nostro cuore al Signore Gesù che è la luce che illumina il mondo e offre a ogni uomo la possibilità di salvarsi dalle tenebre dell’incredulità che conducono inevitabilmente alle tenebre eterne.
Non ci accada, perciò, di indurirci nell’incredulità e nella vana presunzione, ma con animo umile accostiamoci alla mensa eucaristica per ricevere i doni che da essa promanano, tra i quali la grazia di perseverare nella fedeltà al volere di Dio rivelato a noi nel suo Unico Figlio. In tal modo la magnanimità del nostro Dio ci darà di diventare, a nostra volta, capaci di generare alla fede quanti incontriamo sul nostro quotidiano cammino. Uomini e donne di questi nostri giorni segnati da indifferenza e da incredulità e agli occhi dei quali occorre far brillare la luce del Vangelo del Signore che deve necessariamente risplendere sul volto della Chiesa e di ogni singolo fedele.
A. Fusi

701 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA LUGLIO 2012

Generale: Perché tutti possano avere un lavoro e svolgerlo in condizioni di stabilità e di sicurezza.
Missionaria: Perché i volontari cristiani, presenti nei territori di missione, sappiano dare testimonianza della carità di Cristo

sabato 23 giugno 2012

700 - IV DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Come le precedenti parabole dei due figli (21,28-32) e dei vignaioli omicidi (21,33-44), anche questa degli invitati a nozze vuole stigmatizzare il rifiuto da parte dei capi del popolo d’Israele di riconoscere Gesù come l’atteso inviato di Dio. La parabola, contenuta nel vangelo di Matteo (22,1-14) è diretta perciò ad essi (v. 1) e si presenta divisa in due parti: vv. 2-7 e vv. 8-13, con una sentenza conclusiva (v. 14).
La prima parte ambienta la parabola in una festa di nozze organizzata da un re per suo figlio. Segue un primo invio di servi a chiamare gli invitati che, però, rifiutano di partecipare (v. 3) e un secondo invito integrato da istruzioni del re sul banchetto oramai pronto (v. 4). Alcuni invitati si limitano a ignorare l’invito, altri invece giungono a uccidere gli inviati del re che reagisce facendo uccidere a sua volta quegli assassini (v. 7).
La seconda parte si apre con un terzo invio di servi da parte del re con l’ordine di invitare alle nozze chiunque incontrassero per via al fine di riempire la sala di commensali (v. 8-10). I vv. 11-13 riportano l’inattesa ispezione da parte del re dei commensali e l’espulsione dalla sala di uno di essi senza l’abito nuziale.
Questa IV domenica pone in risalto la misteriosa presenza del peccato nel mondo e in ogni uomo. Presenza che, come insegna l’Apostolo, esclude chi lo commette dall’aver parte al regno di Dio (Epistola: 1Corinzi,9-10), ovvero dalla salvezza, anzi su di esso piomba il giudizio di Dio, come è efficacemente detto nel racconto della distruzione di Sodoma e di Gomorra, emblema di perversione e di peccato, sulle quali «fece piovere dal cielo zolfo e fuoco», segni, appunto, dell’irresistibile giudizio divino (Lettura, Genesi 19, 24).
La parabola evangelica, detta dal Signore Gesù in polemica con le autorità del suo tempo, evidenzia come l’incredulità sia il peccato che acceca completamente l’uomo e rende il suo cuore ostinato nel respingere ogni tentativo di Dio di chiamarlo a salvezza.
È il peccato che ha condotto alla persecuzione dei profeti e che annunzia quella a cui andranno incontro i missionari del Regno di Dio raffigurati nei servi inascoltati, insultati e uccisi della parabola evangelica (Vangelo: Matteo 22,6).
È il peccato che, ieri come oggi, caratterizza quanti si chiudono nella loro presunzione di autosufficienza e rifiutano così di accogliere nell’umile Maestro di Nazaret la manifestazione della volontà di universale salvezza che si concretizza nel ridonare ai peccatori «la primitiva ricchezza che nella disobbedienza della colpa era andata perduta» (Prefazio), vale a dire la partecipazione alla vita divina che è l’eredità del regno di Dio ( 1Corinzi, 6,10).
È il peccato che può purtroppo continuare a segnare perfino quanti sono «stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Corinzi,6,11) ossia tutti noi che, per la fede e i sacramenti, facciamo parte della Chiesa, popolo santo di Dio.
In essa, nel corso dei tempi, Dio tollera che crescano insieme «cattivi e buoni» (Matteo 22,10), ma la definitiva partecipazione alla festa della salvezza eterna, di cui la celebrazione eucaristica è annuncio e anticipazione, è condizionata dall’“abito nuziale” del quale occorre farsi trovare rivestiti (cfr. Matteo 22,11-12). Per i discepoli del Regno l’abito nuziale è la loro stessa vita vissuta all’insegna dell’obbedienza filiale al volere divino che il Signore Gesù ci ha detto essere tutto racchiuso nel precetto della carità fraterna specialmente verso i piccoli e quanti sono considerati ultimi nella considerazione altrui.
A. Fusi

venerdì 15 giugno 2012

699 - III DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il testo di Marco 10,1-12 fa parte di una serie di insegnamenti impartiti da Gesù alle folle che accorrevano a lui in viaggio verso Gerusalemme dove l’attende l’ora della Croce (v. 1). L’insegnamento riportato è provocato dalla domanda fattagli, con intento malevolo, da alcuni farisei e riguardante la liceità del divorzio (v. 2). I vv. 3-9 registrano l’iniziale dialogo con i suoi interlocutori e la soluzione magisteriale della questione con il riferimento esplicito alla volontà di Dio creatore dell’uomo «maschio e femmina» destinati da lui a diventare «una carne sola» (cfr. Gen 1,27; 2,24). I vv. 10-12 riportano infine l’insegnamento impartito da Gesù ai soli discepoli a casa, sottolineando la speciale cura nella loro formazione che essi dovranno trasmettere alla sua Casa che è la Chiesa. In esso, con riferimento diretto all’intento di Dio creatore dell’uomo maschio e femmina, è pertanto escluso il divorzio sia da parte del marito sia da parte della donna che, nel mondo pagano, godeva di questo diritto al pari dell’uomo.
È importante per noi lasciarci penetrare dalla luce dello Spirito che apre la nostra mente alla comprensione più profonda della progressiva rivelazione che Dio fa di sé e del suo disegno sul mondo e che è testimoniata nelle Scritture. Rivelazione che, come sappiamo e crediamo, ha il suo fondamento e principio e il suo esito pieno nella venuta in questo mondo del Figlio unico di Dio, Crocifisso e Risorto.
L’illuminazione interiore della Spirito ci dà la capacità di risalire dal racconto biblico della creazione dell’uomo, maschio e femmina (Cfr. Lettura), di risalire alla grandezza e alla magnanimità di Dio che si rivela premuroso fino alla tenerezza per le sue creature (Genesi 2,18.21 ss). Ci dà, inoltre, la capacità di penetrare il significato nascosto di quel racconto fino a scorgere in quella creazione e nelle sue caratteristiche, l’anticipazione profetica del “grande mistero”, quello cioè dell’unione di Cristo e della Chiesa e di cui ci parla l’Apostolo (Epistola: Efesini 5,32).
Proprio per questo il Creatore plasma l’uomo e da esso forma la donna che il primo riconosce come quell’«aiuto che gli corrisponde» (Gen 2,18): «Questa volta è osso delle mie ossa...» (Gen 2,23) e, cosa davvero mirabile, i «due» sono destinati ad essere «un’unica carne», a fondersi cioè in unità di spirito e di vita.
È questo volere di Dio impresso fin dall’origine del tempo a far sì che l’unione dell’uomo e della donna abbia la nota essenziale dell’unità: «i due saranno un’unica carne» e, perciò, dell’indissolubilità: essendo impraticabile la divisione dell’unica carne.
A questo volere Gesù si rifà nella sua risposta alla domanda dei farisei fatta «per metterlo alla prova»: «dall’inizio della creazione “li fece maschio e femmina... perché diventino una sola carne», con la conclusione perentoria che egli lascia come norma non solo ai suoi discepoli: «Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Vangelo: Marco 10, 6-9).
Perché non accada che, “per la durezza del nostro cuore” (v. 5) trasgrediamo al comando del Signore, facciamo costante riferimento alla sua unione d’amore per la Chiesa, sua “carne”, sua sposa. Un amore che lo ha spinto a offrirsi per essa fino alla morte, fino alla trafittura del suo fianco da cui, come supremo dono uscì il flusso di sangue e acqua che continua a scorrere per tutti nella realtà sacramentale che ha il suo culmine e la sua fonte nell’Eucaristia.
Impareremo così a non guardare all’unione sponsale dell’uomo e della donna con le sole categorie sociologiche, ma con quelle rivelate dal rapporto Cristo/Chiesa caratterizzato dal dono di sé spinto all’estremo e che fa nascere spontanea l’ubbidienza e la sottomissione amorosa a lui che ha amato e ama per primo.
A. Fusi

domenica 10 giugno 2012

698 - CONOSCIAMO PADRE PIAMARTA

Il prossimo ottobre Padre Piamarta sarà canonizzato a Roma. Continuiamo a conoscere la sua figura e la sua spiritualità.

1. Una spiritualità moderna
Moderna nel senso che è all’incrocio delle principali correnti della spiritualità maturate dall’umanesimo in poi. Una spiritualità assimilata non sulle grandi teorizzazioni, ma attraverso l’accostamento dei giganti della santità che si sono confrontati con il nuovo mondo nato dal rinascimento.
La Chiesa della prima metà dell’Ottocento... reagisce allo sconvolgimento della Rivoluzione francese, basando la sua ricostruzione sull’esempio dei santi che hanno assunto gli elementi positivi della cultura del loro tempo, purificandola dagli elementi caduchi e orientandola verso Dio.

2. I santi di P. Piamarta
Da Ignazio di Loyola apprende la fiducia nelle forze dell’uomo, al quale è affidato da Dio il governo del mondo attraverso la conoscenza e l’uso della cause seconde.

Da Francesco di Sales impara l“umanesimo devoto”: a Dio si va con tutto il proprio essere, non con la diffidenza verso le proprie capacità, ma con il loro potenziamento. “A Dio si va non per sottrazione, ma per addizione”. La vera nobiltà non sta nei titoli, ma nella benevolenza verso tutti, nella comprensione, nel tendere a costruire rapporti fraterni.

Da Filippo Neri trasse la convinzione che è possibile migliorare una società, migliorando la gioventù, rendendo simpatica la virtù e permettendo al giovane d’essere giovane.

Da Teresa d’Avila trasse la convinzione della potenza della preghiera, la quale è un “ritirarsi nel castello interiore con il Re sconfitto, per ripartire con lui, ogni giorno, alla riconquista del mondo”.

Da Vincenzo de Paoli assimilò l’arte di servire i poveri al meglio, arte che consiste nel vedere Cristo nei poveri, i quali vanno accolti con attenzione e trattati con rispetto, essendo essi i veri “vicari di Cristo”.

3. Una sintesi per il suo e per il nostro tempo
Questi elementi essenziali, vengono da lui fusi in una sintesi accessibile e funzionale, per la sua missione, al servizio del mondo del lavoro. Una sintesi semplice, ma non meno esigente. L’educazione dei giovani al lavoro richiede infatti un senso positivo della fatica umana, una fiducia nel perfettibilità dell’uomo attraverso il riconoscimento e l’esercizio delle sue capacità. Nel lavoro ben fatto non solo si mugliora il mondo (perfectio operis), ma anche chi lavora può migliorare (perfectio operantis).

4. A Nazareth
P. Piamarta parla spesso di Nazareth, dove conduce idealmente i suoi giovani, perché qui si impara il vero senso del lavoro, il “costruire dimore eterne, attraverso le provvisorie impalcature umane”.
Qui si impara l’amore maturo, capace di dare e non solo di esigere. Qui si impara quello che serve per mantenere una famiglia e quello che serve per mantenerla unita. Qui si impara che cosa è utile per essere cittadini “nel primo tempo” di questo mondo e quello che è necessario per essere cittadini del mondo futuro, nel “secondo tempo”.
Chiamerà la sua Congregazione, destinata a continuare la sua opera, “S. Famiglia di Nazareth”, volendola come una famiglia, che trasmettesse lo spirito di famiglia, di benevolenza, di servizio.
P. Piergiordano Cabra

sabato 9 giugno 2012

697 - II DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Il brano del Vangelo di Luca (12,22-31) è preso da una serie di insegnamenti impartiti da Gesù, in viaggio verso Gerusalemme, ai suoi discepoli. Questi sono esortati a confidare nella provvidenza divina senza farsi travolgere dall’affanno per le cose ritenute indispensabili per l’esistenza terrena (vv. 22-23). A sostegno della sua esortazione Gesù porta alcuni esempi presi dalla natura. Il primo attira l’attenzione sui corvi, ritenuti dalla legge ebraica animali impuri e per i quali Dio stesso provvede il cibo (vv. 24-26). Il secondo esempio è preso dal mondo agricolo ed esalta l’inarrivabile bellezza dei gigli, così belli che «neanche Salomone, con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro» (v. 27). L’insegnamento del Signore si conclude con la constatazione che Dio si prende cura di ogni sua creatura e, a maggior ragione, dell’uomo fatto a sua immagine e somiglianza (vv. 24 e 28) e con l’esortazione a impegnarsi, sopra ogni cosa, nel conseguimento del Regno di Dio che è già presente nel mondo proprio nella persona di Gesù.
Le parole del Signore che ascoltiamo nella pagina evangelica sono anzitutto un canto e un’esaltazione della bellezza e della grandezza inesprimibile di Dio che brilla nella creazione a partire dall’umile erba del campo, tra la quale spicca l’incomparabile bellezza del giglio che nemmeno il re Salomone «con tutta la sua gloria» poteva in nessun modo eguagliare (Vangelo: Luca 12,27). Con la bellezza il Signore Gesù esalta la “sapienza organizzativa” e la premura con la quale Dio si prende cura della sua opera: procurando il cibo ai corvi e agli uccelli del cielo! (v. 24).
La stessa sapienza del popolo dell’antica alleanza aveva già guardato all’intera creazione come a opera propria di Dio, con ciò prendendo le distanze dal pensiero dei popoli vicini che attribuivano a essa la consistenza della natura divina.
La stessa sapienza aveva già espresso la più profonda meraviglia per l’ordine impresso da Dio al creato, così che «nessuna di loro urta la sua vicina» (Lettura: Siracide 16,28), in opposizione al pensiero degli empi ancora oggi diffuso che tutto è come dovuto al... caso!
È lecito, pertanto, vedere nella creazione la prima grande rivelazione di Dio, che si presenta come un Dio grande, magnanimo, generoso e soprattutto attento e premuroso verso ogni sua creatura che, a un occhio superficiale, può apparire come insignificante.
Davvero la creazione è una traccia autentica che Dio ha posto e continuamente pone per risalire fino a lui. È ciò che sostiene con forza l’Apostolo Paolo quando afferma che «le perfezioni invisibili (di Dio), ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Epistola: Romani 1,20), dichiarando, perciò, inescusabili davanti a Dio i pagani i quali, «pur avendo conosciuto Dio» attraverso le sue opere, «non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio» (v. 21).
Sotto l’azione dello Spirito, riconosciamo, dunque, che il creato è opera sapiente e intelligente di Dio, respingendo una certa visione di esso che tende alla sua divinizzazione riproponendo, in forme subdole e vane, un nostalgico ritorno al panteismo. Riconosciamo, inoltre, nel creato una possibilità certa di risalire a Dio inteso come provvidenza per tutte le sue creature respingendo quella mentalità negativa, pure oggi diffusa, per la quale l’universo, la terra e in essa l’umanità, sono di fatto lasciati a sé stessi e, quindi, alla deriva.
Per tutto questo nel cuore della celebrazione eucaristica rendiamo grazie a Dio che proclamiamo «Signore, Padre Santo, Onnipotente ed Eterno» essenzialmente «per Cristo nostro Signore». Egli, infatti, nella sua Incarnazione, Morte e Risurrezione ha portato a compimento in modo pieno e definitivo la rivelazione di Dio che ha il suo esordio autentico nella creazione. La preghiera liturgica sintetizza il messaggio oggi trasmesso dalle divine Scritture facendoci così rivolgere a Dio: «Tu hai creato il mondo nella varietà dei suoi elementi, hai disposto l’avvicendarsi dei tempi e delle stagioni e all’uomo, fatto a tua immagine, hai affidato le meraviglie dell’universo perché, fedele interprete dei tuoi disegni, esercitasse il dominio su ogni creatura e nelle tue opere glorificasse te, Creatore e Padre, per Cristo nostro Signore» ( Prefazio). 
A. Fusi

giovedì 7 giugno 2012

696 - FAMILY 2012

Omelia del papa Benedetto XVI a Bresso (Milano) - 3 giugno 2012

lunedì 4 giugno 2012

695 - SALUTO ALLA CITTA' DI MILANO

Piazza Duomo, 1 giugno 2012
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Saluto cordialmente tutti voi qui convenuti così numerosi, come pure quanti seguono questo evento attraverso la radio e la televisione. Grazie per la vostra calorosa accoglienza! Ringrazio il Signor Sindaco per le cortesi espressioni di benvenuto che mi ha indirizzato a nome della comunità civica. Saluto con deferenza il Rappresentante del Governo, il Presidente della Regione, il Presidente della Provincia, nonché gli altri rappresentanti delle Istituzioni civili e militari, ed esprimo il mio apprezzamento per la collaborazione offerta per i diversi momenti di questa visita. E grazie a lei, Eminenza, per il cordiale saluto!
Sono molto lieto di essere oggi in mezzo a voi e ringrazio Dio, che mi offre l’opportunità di visitare la vostra illustre Città. Il mio primo incontro con i Milanesi avviene in questa Piazza del Duomo, cuore di Milano, dove sorge l’imponente monumento simbolo della Città. Con la sua selva di guglie esso invita a guardare in alto, a Dio. Proprio tale slancio verso il cielo ha sempre caratterizzato Milano e le ha permesso nel tempo di rispondere con frutto alla sua vocazione: essere un crocevia – Mediolanum – di popoli e di culture. La città ha così saputo coniugare sapientemente l’orgoglio per la propria identità con la capacità di accogliere ogni contributo positivo che, nel corso della storia, le veniva offerto. Ancora oggi, Milano è chiamata a riscoprire questo suo ruolo positivo, foriero di sviluppo e di pace per tutta l’Italia. Il mio «grazie» cordiale va, ancora una volta, al Pastore di questa Arcidiocesi, il Cardinale Angelo Scola, per l’accoglienza e le parole che mi ha rivolto a nome dell’intera Comunità diocesana; con lui saluto i Vescovi Ausiliari e chi lo ha preceduto su questa gloriosa e antica Cattedra, il Cardinale Dionigi Tettamanzi e il Cardinale Carlo Maria Martini.
Rivolgo un particolare saluto ai rappresentanti delle famiglie - provenienti da tutto il mondo - che partecipano al VII Incontro Mondiale. Un pensiero affettuoso indirizzo poi a quanti hanno bisogno di aiuto e di conforto, e sono afflitti da varie preoccupazioni: alle persone sole o in difficoltà, ai disoccupati, agli ammalati, ai carcerati, a quanti sono privi di una casa o dell’indispensabile per vivere una vita dignitosa. Non manchi a nessuno di questi nostri fratelli e sorelle l’interessamento solidale e costante della collettività. A tale proposito, mi compiaccio di quanto la Diocesi di Milano ha fatto e continua a fare per andare incontro concretamente alle necessità delle famiglie più colpite dalla crisi economico-finanziaria, e per essersi attivata subito, assieme all’intera Chiesa e società civile in Italia, per soccorrere le popolazioni terremotate dell’Emilia Romagna, che sono nel nostro cuore e nelle nostre preghiere e per le quali invito, ancora una volta, ad una generosa solidarietà.
Il VII Incontro Mondiale delle Famiglie mi offre la gradita occasione di visitare la vostra Città e di rinnovare i vincoli stretti e costanti che legano la comunità ambrosiana alla Chiesa di Roma e al Successore di Pietro. Come è noto, sant’Ambrogio proveniva da una famiglia romana e ha mantenuto sempre vivo il suo legame con la Città Eterna e con la Chiesa di Roma, manifestando ed elogiando il primato del Vescovo che la presiede. In Pietro – egli afferma – «c’è il fondamento della Chiesa e il magistero della disciplina» (De virginitate, 16, 105); e ancora la nota dichiarazione: «Dove c’è Pietro, là c’è la Chiesa» (Explanatio Psalmi 40, 30, 5). La saggezza pastorale e il magistero di Ambrogio sull’ortodossia della fede e sulla vita cristiana lasceranno un’impronta indelebile nella Chiesa universale e, in particolare, segneranno la Chiesa di Milano, che non ha mai cessato di coltivarne la memoria e di conservarne lo spirito. La Chiesa ambrosiana, custodendo le prerogative del suo rito e le espressioni proprie dell’unica fede, è chiamata a vivere in pienezza la cattolicità della Chiesa una, a testimoniarla e a contribuire ad arricchirla.
Il profondo senso ecclesiale e il sincero affetto di comunione con il Successore di Pietro, fanno parte della ricchezza e dell’identità della vostra Chiesa lungo tutto il suo cammino, e si manifestano in modo luminoso nelle figure dei grandi Pastori che l’hanno guidata. Anzitutto san Carlo Borromeo: figlio della vostra terra. Egli fu, come disse il Servo di Dio Paolo VI, «un plasmatore della coscienza e del costume del popolo»; e lo fu soprattutto con l’applicazione ampia, tenace e rigorosa delle riforme tridentine, con la creazione di istituzioni rinnovatrici, a cominciare dai Seminari, e con la sua sconfinata carità pastorale radicata in una profonda unione con Dio, accompagnata da una esemplare austerità di vita. Ma, insieme con i santi Ambrogio e Carlo, desidero ricordare altri eccellenti Pastori più vicini a noi, che hanno impreziosito con la santità e la dottrina la Chiesa di Milano: il beato Cardinale Andrea Carlo Ferrari, apostolo della catechesi e degli oratori e promotore del rinnovamento sociale in senso cristiano; il beato Alfredo Ildefonso Schuster, il «Cardinale della preghiera», Pastore infaticabile, fino alla consumazione totale di se stesso per i suoi fedeli. Inoltre, desidero ricordare due Arcivescovi di Milano che divennero Pontefici: Achille Ratti, Papa Pio XI; alla sua determinazione si deve la positiva conclusione della Questione Romana e la costituzione dello Stato della Città del Vaticano; e il Servo di Dio Giovanni Battista Montini, Paolo VI, buono e sapiente, che, con mano esperta, seppe guidare e portare ad esito felice il Concilio Vaticano II. Nella Chiesa ambrosiana sono maturati inoltre alcuni frutti spirituali particolarmente significativi per il nostro tempo. Tra tutti voglio oggi ricordare, proprio pensando alle famiglie, santa Gianna Beretta Molla, sposa e madre, donna impegnata nell’ambito ecclesiale e civile, che fece splendere la bellezza e la gioia della fede, della speranza e della carità.
Cari amici, la vostra storia è ricchissima di cultura e di fede. Tale ricchezza ha innervato l’arte, la musica, la letteratura, la cultura, l’industria, la politica, lo sport, le iniziative di solidarietà di Milano e dell’intera Arcidiocesi. Spetta ora a voi, eredi di un glorioso passato e di un patrimonio spirituale di inestimabile valore, impegnarvi per trasmettere alle future generazioni la fiaccola di una così luminosa tradizione. Voi ben sapete quanto sia urgente immettere nell’attuale contesto culturale il lievito evangelico. La fede in Gesù Cristo, morto e risorto per noi, vivente in mezzo a noi, deve animare tutto il tessuto della vita, personale e comunitaria, pubblica e privata, privata e pubblica, così da consentire uno stabile e autentico “ben essere”, a partire dalla famiglia, che va riscoperta quale patrimonio principale dell’umanità, coefficiente e segno di una vera e stabile cultura in favore dell’uomo. La singolare identità di Milano non la deve isolare né separare, chiudendola in se stessa. Al contrario, conservando la linfa delle sue radici e i tratti caratteristici della sua storia, essa è chiamata a guardare al futuro con speranza, coltivando un legame intimo e propulsivo con la vita di tutta l’Italia e dell’Europa. Nella chiara distinzione dei ruoli e delle finalità, la Milano positivamente “laica” e la Milano della fede sono chiamate a concorrere al bene comune.
Cari fratelli e sorelle, grazie ancora per la vostra accoglienza! Vi affido alla protezione della Vergine Maria, che dalla più alta guglia del Duomo maternamente veglia giorno e notte su questa Città. A tutti voi, che stringo in un grande abbraccio, dono la mia affettuosa Benedizione. Grazie!
Benedetto XVI

sabato 2 giugno 2012

694 - DOMENICA DELLA SS TRINITA'

La presente solennità ci riporta ancora una volta nel cuore della rivelazione di Dio e dell’inaccessibile mistero del suo Volto offerto al mondo dal suo Verbo invisibile venuto tra noi come uomo, come uno di noi, Cristo Gesù, il Crocifisso, Risorto, costituito “Signore”.Egli, una volta ritornato a Dio, dal quale era venuto, ha dato alla comunità dei credenti lo Spirito Santo che gli rende testimonianza (Vangelo: Giovanni 15,26).
Lo Spirito Santo apre infatti l’intelligenza e il cuore dei discepoli alla comprensione del mistero del Figlio, della sua parola di rivelatore unico di Dio e delle sue opere che attestano la sua origine da Dio, da lui chiamato Padre! Di questa intelligenza abbiamo bisogno perché l’uomo che vive «secondo la carne» (Epistola: Romani 8,5), basandosi cioè su di sé, non è in grado di comprendere e, dunque, di aderire con fede a quanto gli viene rivelato di Dio e del suo mistero.
Perciò, illuminati dallo Spirito che ci è stato donato, confessiamo integralmente la nostra fede che così si esprime nel cuore della celebrazione eucaristica: «Tu (Dio Padre) con il tuo unico Figlio e con lo Spirito Santo sei un solo Dio e un solo Signore, non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Quanto hai rivelato della tua gloria, noi lo crediamo e, con la stessa fede, senza differenze lo affermiamo del tuo unico Figlio e dello Spirito Santo.
Nel proclamare te Dio vero ed eterno noi adoriamo la Trinità delle Persone, l’unità della natura, l’uguaglianza nella maestà divina» (Prefazio). Lo stesso Spirito che ci illumina con l’intelligenza della fede, apre i nostri cuori all’indicibile: il Dio tre volte santo, invisibile, inaccessibile, il cui volto nessuno può vedere (Cfr. Lettura: Esodo 34,5), impenetrabile nel mistero della sua vita divina e che «gli angeli e gli arcangeli non cessano di esaltare», è il Dio «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni» (Esodo 34,6-7).
Il Dio che nel suo unico Figlio e nella grazia del suo Santo Spirito non solo ci libera dal potere del male, ma ci chiama a partecipare alla sua stessa Vita, rendendo continuamente tutto ciò alla nostra portata nella celebrazione della Morte e della Risurrezione del suo Unico Figlio, manifestazione suprema di lui «che è amore». In tutta verità, perciò, diciamo: «Sia lode al Padre che regna nei cieli e al Figlio che è sovrano con lui; cantino gloria allo Spirito Santo tutte le creature beate» (Canto Dopo il Vangelo).
A. Fusi