Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

venerdì 18 settembre 2015

1104 - V DOMENICA DOPO IL MARTIRIO DI SAN GIOVANNI

È noto che il Vangelo di Giovanni, ultimo a essere messo per iscritto, parla dell’Eucaristia attraverso il discorso di Gesù nella Sinagoga di Cafarnao. Oggi leggiamo una parte di questo “discorso” (Gv.6,41-51). Sono distinguibili tre passaggi.
1. Chi è costui? Lo svelamento del mistero del sacrificio di Gesù parte da una domanda: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?». I Giudei, credenti e osservanti, pensavano di avere l’esclusiva della figliolanza divina e si opponevano a uno sconosciuto che pretendeva di essere più grande di loro. Noi non siamo come i Giudei, ma spesso abbiamo una superbia sufficiente per mettere in imbarazzo la nostra fede: «Possibile che io debba aspettarmi dal “cielo” la salvezza? È possibile che la salvezza giunga a me in modo così “semplice e inoffensivo” come un pezzo di pane?». Le domande e i dubbi dei Giudei rivivono nelle nostre fatiche nell’accettare che la Croce di Gesù possa restare viva, reale ed efficace in un rito ripetitivo e monotono come quello eucaristico.
2. Chi crede ha la vita eterna. Gesù risponde agli interrogativi dei Giudei e nostri annunciando il senso della sua missione: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (...). Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me (... ). In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna». Questa è l’affermazione centrale. La vita eterna non è il risultato o il premio di una iniziativa umana, ma germoglia per la fede; dalla fede, poi, viene la possibilità di condurre una “vita buona”. Questo percorso è importante ma non è scontato; molti ritengono di poter fare un percorso inverso e cioè di “salire fino a Dio” attraverso l’ascesi di una vita rispettosa delle norme e carica di opere buone. Gesù dice che la vita, quella eterna, viene dall’alto: per grazia. La fede è definita nella sua essenza: ascoltare l’annuncio di Gesù, accogliere la sua persona come rivelazione piena e definitiva dell’amore del Padre, abbandonarsi alla “nuova vita”, germe eterno e divino che la fede semina nell’anima e che vivrà per sempre.
3. Il Pane che dà la vita. Il germe della fede è vitale, anzi è la vita stessa; e la vita, per crescere, ha bisogno di nutrimento. Noi sappiamo che il nutrimento della fede è l’amore che Gesù ha per noi; sappiamo anche che il luogo e la fonte di questo amore è l’Eucaristia celebrata dalla Sposa. Per questo, «se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Dobbiamo riflettere seriamente sul senso della celebrazione eucaristica: da lì nasce la Chiesa e in essa è resa possibile la professione della fede. Molti cristiani si nutrono sacramentalmente della Comunione; ma tutti i cristiani vivono la fede nell’atto dell’attiva partecipazione all’Eucaristia. Questo concetto andrebbe ben altrimenti sviluppato, ma deve crescere in noi la consapevolezza che «l’Eucaristia è tutto per noi».
don Luigi Galli

domenica 13 settembre 2015

1103 - 14 SETTEMBRE: FESTA DELLA ESALTAZIONE DELLA CROCE

“La croce, già segno del più terribile fra i supplizi, è per il cristiano l'albero della vita, il talamo, il trono, l'altare della nuova alleanza. Dal Cristo, nuovo Adamo addormentato sulla croce, è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa. La croce è il segno della signoria di Cristo su coloro che nel Battesimo sono configurati a lui nella morte e nella gloria. Nella tradizione dei Padri la croce è il segno del figlio dell'uomo che comparirà alla fine dei tempi. La festa dell'esaltazione della croce, che in Oriente è paragonata a quella della Pasqua, si collega con la dedicazione delle basiliche costantiniane costruite sul Golgota e sul sepolcro di Cristo”. (Messale Romano)
La festa in onore della Croce venne celebrata la prima volta il 13 dicembre 335. Col termine di "esaltazione", che traduce il greco hypsòsis, la festa passò anche in Occidente, e a partire dal secolo VII essa commemora il recupero della preziosa reliquia fatto dall'imperatore Eraclio nel 628.
Della Croce, trafugata quattordici anni prima dal re persiano Cosroe Parviz durante la conquista della Città santa, si persero poi definitivamente le tracce nel 1187, quando venne tolta al vescovo di Betlemmme che l'aveva portata nella battaglia di Hattin.
Ma oggi la celebrazione assume un significato ben più alto del leggendario ritrovamento da parte della pia madre dell'imperatore Costantino, Elena. La glorificazione di Cristo passa infatti attraverso il supplizio della croce e l'antitesi sofferenza-glorificazione diventa fondamentale nella storia della Redenzione: Cristo, incarnato nella sua realtà concreta umano-divina, si sottomette volontariamente all'umiliante condizione di schiavo (la condanna alla croce era un riservata agli schiavi) e l'infamante supplizio viene tramutato in gloria imperitura. Così la croce diventa il simbolo e il compendio della religione cristiana.
La stessa evangelizzazione operata dagli apostoli, è la semplice presentazione di "Cristo crocifisso". Il cristiano, accettando questa verità, "è crocifisso con Cristo", cioè deve portare quotidianamente la propria croce, sopportando ingiurie e sofferenze, come Cristo che, gravato dal peso del "patibulum" (il braccio trasversale della croce, che il condannato portava sulle spalle fino al luogo del supplizio dov'era conficcato stabilmente il palo verticale), fu costretto a sopportare gli insulti della gente sulla via che conduce al Golgota. Le sofferenze che riproducono nel corpo mistico della Chiesa lo stato di morte di Cristo, sono un contributo alla redenzione degli uomini, e assicurano la partecipazione alla gloria del Risorto.
(Piero Bargellini)

1102 - IO SEMINO PACE?

Ci farà bene domandarci: ‘Io semino pace? Per esempio, con la mia lingua, semino pace o semino zizzania?’. Quante volte abbiamo sentito dire di una persona: ‘Ma ha una lingua di serpente!’, perché sempre fa quello che ha fatto il serpente con Adamo ed Eva, ha distrutto la pace. E questo è un male, questa è una malattia nella nostra Chiesa: seminare la divisione, seminare l’odio, seminare non la pace.
Ma questa è una domanda che tutti i giorni fa bene che noi ce la facciamo: ‘Io oggi ho seminato pace o ho seminato zizzania?’. ‘Ma, alle volte, si devono dire le cose perché quello e quella…’: con questo atteggiamento cosa semini tu?”.
“Se una persona, durante la sua vita, non fa altra cosa che riconciliare e pacificare la si può canonizzare: quella persona è santa.
Ma dobbiamo crescere in questo, dobbiamo convertirci: mai una parola che sia per dividere, mai, mai una parola che porti guerra, piccole guerre, mai le chiacchiere.
Io penso: cosa sono le chiacchiere? Eh, niente, dire una parolina contro un altro o dire una storia: ‘Questo ha fatto…’. No! Fare chiacchiere è terrorismo perché quello che chiacchiera è come un terrorista che butta la bomba e se ne va, distrugge: con la lingua distrugge, non fa la pace. Ma è furbo, eh? Non è un terrorista suicida, no, no, lui si custodisce bene”.
“Ogni volta che mi viene in bocca di dire una cosa che è seminare zizzania e divisione e sparlare di un altro… Mordersi la lingua! Io vi assicuro, eh? Che se voi fate questo esercizio di mordersi la lingua invece di seminare zizzania, i primi tempi si gonfierà così la lingua, ferita, perché il diavolo ci aiuta a questo perché è il suo lavoro, è il suo mestiere: dividere”.
Omelia di papa Francesco, 4 settembre 2015, a Casa Santa Marta

1101 - GUIDAMI SIGNORE

O tu che sei il mio rifugio e la mia fortezza, guidami, come un tempo il tuo servo Mosè, nel cuore del deserto, dove arde nel fuoco il roveto senza consumarsi (cfr Es 3), dove l'anima…, pervasa dal fuoco dello Spirito Santo, diviene ardente come un serafino pieno di fuoco, senza consumarsi, ma purificandosi. …
Là dove non si può dimorare, e dove si può andare avanti soltanto dopo aver sciolto i legami degli intralci carnali…, là dove Colui che è, senza dubbio non si lascia vedere così come è, ma dove tuttavia lo si sente dire: “Io sono colui che sono!”. Là, occorre ancora coprirsi il volto per non guardare il Signore faccia a faccia, ma ci si deve esercitare a prestare ascolto, nell'umiltà dell'ubbidienza, per distinguere ciò che Dio dice nel profondo del cuore.
Intanto, Signore, “nascondimi nel segreto della tua tenda” nel giorno della sventura; “nascondimi nel segreto del tuo volto, lontano dalla rissa delle lingue” (Sal 27,5; 31,21); perché hai messo su di me il tuo giogo così dolce e il tuo carico così leggero (Mt 11,30). E quando mi fai sentire la distanza fra il tuo servizio e quello di questo mondo, con la tua voce tenera e dolce mi chiedi se è più gradevole servire te, il Dio vivente, o gli dei stranieri (cfr 2Cr 12,8). Allora, adoro quella mano che pesa su di me… e ti dico: “Mi hanno dominato così a lungo, altri padroni diversi da te! Voglio appartenere solo a te, accolgo il tuo giogo, non mi pesa, perché il tuo braccio mi solleva!”
Guglielmo di Saint-Thierry (ca 1085-1148), monaco benedettino poi cistercense
Orazioni meditative, IV, 155