Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

sabato 31 dicembre 2011

634 - BUON ANNO!

Alla fine dell'anno dobbiamo elevare un inno di ringraziamento a Dio per le tante grazie che ci ha dato.
Guardiamo avanti con speranza.
Chi ci introduce a Cristo, nostra speranza, è Maria Santissima, la Madre di Dio.
Come già per i pastori ed i magi, le sue braccia ed il suo cuore continuano ad offrirci Gesù
suo figlio e nostro Salvatore.
In Cristo è riposta la nostra speranza perché grazie a Lui c'è salvezza e pace per tutta l'umanità.
Buon Anno!

633 - OTTAVA DI NATALE

Questo giorno “ottavo della nascita del Salvatore” fa memoria della sua Circoncisione, avvenuta in conformità alla Legge di Mosè e nella quale la Chiesa vede l’annunzio del compimento della salvezza che ha il suo fondamento nell’Incarnazione e nella Natività del Figlio unigenito di Dio.
Le lezioni bibliche proclamate sono: Lettura: Numeri 6,22-27; Salmo 66 (67); Epistola: Filippesi 2,5-11; Vangelo: Luca 2,18-21. Il Vangelo della Risurrezione per la messa vigiliare del sabato è preso da Giovanni 20,19-23.
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Lettura del libro dei Numeri (6,22-27)
In quei giorni. 22Il Signore parlò a Mosè e disse: 23«Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: 24Ti benedica il Signore e ti custodisca. 25Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. 26Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. 27Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò».
Si tratta della formula di benedizione che Dio stesso trasmette ai sacerdoti tramite Mosè e che è rivolta al popolo d’Israele liberato dall’Egitto e in marcia nel deserto verso la terra promessa. La benedizione è per tutti e per i singoli membri del popolo, sui quali viene invocato per tre volte il nome divino assicurando così la benevolenza, la presenza e la protezione di Dio.
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Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (2,5-11)
Fratelli, 5abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: 6egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, 10perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, 11e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Il brano paolino, noto come “inno cristologico”, è elaborato secondo lo schema biblico dell’umiliazione del giusto sofferente (vv. 2-8) che poi viene esaltato da Dio (vv. 9-11). In particolare l’umiliazione del Signore consiste nella sua spoliazione della connaturale gloria divina per assumere, diventando uomo, la condizione di servo!
Il v. 8 sottolinea che tale umiliazione ha avuto il suo culmine nella morte in croce, segno supremo dell’obbedienza filiale di Gesù al Padre. È per questa obbedienza che il Padre ha esaltato il suo Figlio con la sua risurrezione e dandogli il suo stesso nome, quello di Signore; un nome che gli sarà riconosciuto da tutti gli esseri viventi «in cielo, sulla terra e sotto terra».
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Lettura del Vangelo secondo Luca (2,18-21)
In quel tempo. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. 21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.
Il testo riporta nei vv. 18-20 la conclusione del racconto della natività del Signore sottolineando lo stupore provocato dalle parole dei pastori su ciò che avevano visto dopo essere andati a Betlemme dietro rivelazione dell’angelo del Signore (vv. 9-17).
Di Maria si dice invece che custodiva tutte le cose che erano accadute «meditandole nel suo cuore». Il v. 21 parla della circoncisione compiuta sul bambino e della concomitante “imposizione del nome”, precisando che ciò viene fatto secondo la prescrizione della Legge di Mosè (cfr. Levitico 12,3). La circoncisione è segno di appartenenza al popolo di Israele , già adottata da Abramo come segno dell’Alleanza con Dio (Genesi 17,10-13; 21,4). Quanto al nome, viene eseguito ciò che era stato detto dall’angelo Gabriele a Maria (cfr. Luca 1,31).
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L’odierna domenica conclusiva dell’Ottava del Natale pone in rilievo due eventi a esso legati ed entrambi fondati nelle divine scritture: la circoncisione e l’imposizione del nome, fissati come abbiamo appena detto dalla Legge di Mosè proprio l’ottavo giorno della nascita di un bambino. La circoncisione, in particolare, evidenzia l’appartenenza al popolo d’Israele e la sua alleanza con Dio significata dal sangue che viene versato.
Il rapido accenno che l’evangelista fa al rito al quale viene sottoposto il bambino Gesù porta con sé un contenuto teologico di straordinaria importanza, da collegare a ciò che abbiamo letto nell’Epistola riguardante l’assunzione della «condizione di servo» di colui che è nella stessa «condizione di Dio».
Tale condizione di servo rimanda all’obbedienza del Figlio che si consegna senza riserve al volere del Padre. Un volere che, inspiegabilmente per la nostra ragione, contempla lo svuotamento e l’umiliazione estrema del Figlio fino alla morte obbrobriosa «di croce» che, in qualche modo, è annunciata nel sangue e nei gemiti del bambino sottoposto alle prescrizioni della Legge. Nei piani e nei misteriosi disegni divini, dunque, la salvezza passa dall’umiliazione e dalla morte del Figlio che l’evento della circoncisione annunzia e anticipa.
L’alto valore salvifico della circoncisione del Signore è messo in luce dalla preghiera liturgica ambrosiana per la quale egli, sottoponendosi a essa, «affermò così il valore dell’antico precetto, ma al tempo stesso rinnovò la natura dell’uomo liberandola da ogni impaccio e da ogni residuo del peccato. Senza disprezzo per il mondo antico diede principio al nuovo; nell’ossequio della legge divenne legislatore e, portando nella povertà della nostra natura umana la sua divina ricchezza, elargì nuova sostanza al mistero dei vecchi riti» (Prefazio).
L’obbedienza del Figlio, la sua sottomissione al Padre è la nuova Legge del mondo nuovo che da lui prende principio ed è causa e motivo della salvezza e della riconciliazione del mondo con Dio e insieme è la “via” obbligata per quanti credono in lui e intendono seguirlo.
La conformazione a Cristo nella via dell’obbedienza e dell’umiliazione è, di conseguenza, la testimonianza più credibile ed efficace che noi, discepoli del Signore, possiamo offrire a questo mondo perché «tutti gli uomini riconoscano, come unico nome che la nostra speranza può invocare» (Orazione A Conclusione Della Liturgia Della Parola) il nome di Gesù dato da Maria al bambino su indicazione dell’angelo. Nome che ne proclama la missione: portare salvezza!
Ed è nel suo nome che invochiamo da Dio ogni grazia per il mondo intero all’inizio del nuovo anno e per noi quella di non rimanere avviluppati dal fascino perverso del male, «di perdere ogni gusto per i piaceri che danno la morte e di volgerci con animo puro al banchetto della vita senza fine» (Orazione Dopo La Comunione).
A. Fusi

martedì 27 dicembre 2011

632 - DALLA MISSIONE DI MOCODOENE

Carissimi,
AUGURI. Dopo un lungo silenzio, per l’occasione del Santo Natale, ci facciamo vivi.
Stiamo passando momenti abbastanza difficili a causa soprattutto della instabilità della corrente elettrica che è arrivata, ma che non fornisce adeguatamente il servizio che dovrebbe dare e, anzi, pare volerci creare problemi. Ne abbiamo avuto con la pompa dell’acqua, con la fotocopiatrice, con la centralina delle campane, le stampanti e le macchine della officina meccanica da poco inaugurata. A queste si aggiungono altre difficoltà che si ripetono a un ritmo costante.
Fa capolino, a volte, lo scoraggiamento. Ma rischieremmo di avere una visione falsata della realtà se le cose andassero sempre bene e così ci mettiamo umilmente nelle mani del Signore. Rimanere senza acqua ci aiuta a capire meglio cosa vuol dire per la nostra gente fare lunghi percorsi per andare a prenderla. Anche l’avere una alternativa ci aiuta a pensare quanto possono desiderarla coloro che non ce l’hanno. Il rompersi di un pezzo della falciatrice e non trovare i pezzi di ricambio ci toglie l’illusione di vivere in una isola felice senza sapere cosa c’è dall’altra parte. Sono esperienze che ci mantengono umili e ci aiutano a pregare perché il Signore ci dia forza e coraggio. Comprendiamo un po’ meglio anche il messaggio di Colui che ha scelto di venire ad abitare in mezzo a noi.
Non vogliamo tediarvi con le nostre riflessioni, ma riteniamo che siano utili per dare una visione completa della realtà in cui si vive.
Forse fare Natale è anche questa umile e paziente esperienza di condivisione del limite illuminata dall’annuncio della Presenza che ci spinge ad andare avanti.
Ciò detto dobbiamo aggiungere che ci ha fatto molto piacere la visita dei professori dell’Università agraria di Maputo per prendere visione di ciò che stiamo facendo. E’ stata una giornata intensa di studio e ricerca di nuovi metodi di lavoro e percorsi per migliorare le nostre attività di sviluppo rurale. La venuta a Mocodoene dei rappresentanti degli Enti che ci assistono nella realizzazione dei vari Progetti è stata una spinta a fare sempre meglio il nostro lavoro. Ci ha fatto, per un po’ inorgoglire anche il fatto che le percentuali dei promossi della nostra scuola sono le più alte del Distretto. Ringraziamo perciò il Signore e andiamo avanti.
A tutti facciamo tantissimi auguri di un santo Natale e di un anno di gioia e di pace.
Auguri. Padre Tiago e tutta la comunità di Mocodoene.
Mocodoene, 24.12.2011

lunedì 26 dicembre 2011

631 - SANTO STEFANO

La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno.
Del grande e veneratissimo martire s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.
Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Lorenzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.
Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.
Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.
Antonio Borrelli

domenica 25 dicembre 2011

630 - LA NATIVITA' MISTICA

La Natività mistica è un dipinto ad olio su tela (108,5x75 cm) di Sandro Botticelli, datato 1501  e conservato alla National Gallery di Lonbdra.
L'opera è l'unica firmata e datata da Botticelli; nonostante ciò la sua storia è piuttosto oscura. Si pensa che fosse originariamente destinata alla devozione privata di qualche famiglia nobiliare fiorentina ed è spesso citata come ultimo capolavoro dell'artista, prima di un periodo di inattività prima della morte, testimoniato anche da una lettera a Isabella d’Este del 1502.
Il titolo di Natività mistica è stato assegnato dalla critica moderna per sottolineare il complesso simbolismo della scena.
La grotta
Il soggetto della tavola è la natività di Cristo, interpretata come un'adorazione del Bambino da parte di Maria, dei pastori e dei Magi tra cori angelici. Al centro si trova la grotta della natività, forata sul dietro per lasciar intravedere il bosco e coperta da una tettoia di paglia retta da tronchi, con il Bambino al centro su un giaciglio coperto da un telo bianco, la giganteggiante Vergine a destra e il sonnolento Giuseppe a sinistra; dietro si vedono il bue e l'asinello, simboli tradizionali di ebrei e pagani che assistettero all'evento senza prendervi parte.
Gli angeli nella metà inferiore
Il resto delle figure sono disposte in maniera strettamente ritmica, generando simmetrie e andamenti che hanno la cadenza di un balletto.
A sinistra un angelo vestito di rosa accompagna i tre re Magi; a destra uno vestito di bianco indica il Bambino a due pastori. Entrambi tengono in mano rami d'ulivo, simbolo di pace. In basso, ai piedi di un sentierino tra rocce scheggiate, tre gruppi mostrano l'abbraccio e il bacio di comunione tra angeli e personaggi laureati, quindi virtuosi, mentre sul terreno cinque diavoletti fuggono spaventati trafiggendosi coi loro stessi forconi e ricacciandosi nelle profondità attraverso le crepe del suolo: si tratta probabilmente di una visione profetica della liberazione dell'umanità dal male.
Gli angeli nella metà superiore
Sopra la tettoia tre angeli, con le vesti che ricordano i colori delle tre Virtù teologali (da sinistra bianco per la Fede, rosso per la Carità e verde per la Speranza) intonano un canto reggendo un corale tra le mani. Più in alto, oltre il boschetto che circonda la grotta, fatto di slanciati alberelli disposti a semicerchio, e il cielo azzurrino, si apre un fulgido brano di paradiso, su fondo oro, dove un gruppo di dodici angeli inscena un vorticoso carosello tenendosi per mano e reggendo rametti d'ulivo a cui sono appesi nastri svolazzanti e corone. Questo fantastico girotondo venne probabilmente ispirato da una reale sacra rappresentazione messa in scena da Filippo Brunelleschi in San Felice in Piazza. Si tratta di una ricreazione dell'Annunciazione, in cui dei fanciulli stavano sospesi nel vuoto, sostenuti da una struttura dorata a forma di cupola, simulando un coro angelico. Questo tipo di rappresentazione ebbe un successo tale che venne a lungo replicata per cui non è escluso che Botticelli l'avesse potuta osservare direttamente.
L'opera combina il tema della nascita di Cristo con quello della sua seconda venuta, cioè il ritorno sulla Terra prima del Giudizio Universale come promesso nel Libro della Rivelazione. In quell'occasione si assisterà alla completa riconciliazione tra gli uomini e Dio, come sembrano preannunciare le figure abbracciate in primo piano. Oppure le tre coppie potrebbero indicare i mezzi per vincere la presenza del male, ovvero la fratellanza e, tramite l'esempio degli angeli, la preghiera.
La tavola è caratterizzata da colori squillanti ripetuti ritmicamente (come nelle vesti alternate degli angeli) e da una disposizione estremamente libera delle figure, ormai lontana dalla rigida geometria prospettica della cultura fiorentina del primo Quattrocento. Numerosi sono gli elementi arcaizzanti, a partire dal fondo oro, per proseguire con le proporzioni gerarchiche, che rimpiccioliscono gli angeli rispetto alla Sacra Famiglia, fino alla presenza dei cartigli legati ai rami d'ulivo.
Lo spazio invece appare notevolmente dilatato, grazie allo stratagemma di aprire un varco nella grotta e di disporre i personaggi su più piani, che aumenta il senso di profondità. Se forti sono le simmetrie e i ritmi di fondo, nel dettaglio gli atteggiamenti dei personaggi sono i più vari e creano un dinamismo che non manca mai nelle opere dell'artista. Forte è la componente visionaria, che contraddice però proprio questa attitudine a forme conservatrici, dal cui contrasto scaturisce la particolarità del dipinto.

sabato 24 dicembre 2011

629 - UNA GRANDE LUCE

628 - GLI AUGURI DEL PARROCO

Nella riflessione dei Padri della Chiesa, il legno della croce viene ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l'agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il figlio morto. Nella Pietà di Michelangelo in S.Pietro Maria è rappresentata come un'adolescente che tiene in braccio il Figlio morto, la stessa fanciulla di Betlemme. La puerpera ha già sulle ginocchia il figlio crocifisso.
Non è il non voler gioire per un bambino che nasce, ma è sottolineare il primo atto di un infinito amore, perché senza "la Pietà" quel bambino sarebbe soltanto una nascita per caso fra i tanti umiliati della terra. La Pasqua illumina il Natale, e in questa nascita c'è già presente tutta la storia della redenzione. Festeggiamo un bambino, ma non lo faremmo se quel bambino non fosse morto e risorto. La storia di Gesù va scritta partendo dalla Pasqua, dal Calvario a Betlemme, non viceversa.
Gesù, a Betlemme, non è consegnato ad un destino indecifrabile, nato dal disegno di un imperatore che voleva contare i suoi sudditi, ma è il termine di un atto d'amore di Dio che guida ogni cosa. Tutto ciò che noi siamo, come per Gesù, non è frutto di un caso irrazionale, ma porta in sé la traccia di un disegno di amore.
La luce di Betlemme, illuminando il mistero di Dio, illumina anche la nostra vita. In quella notte è avvenuta la più grande svolta anche per l'uomo: Dio si prende cura di noi, non siamo qui a caso, siamo qualcuno che vale il prezzo di questo bambino. Nel Natale non ci sono numeri, ma persone salvate. Ed i primi ad incontrare la salvezza sono i pastori, persone allora prive di dignità, che in quella notte cessano di essere qualcosa, numero, ma diventano qualcuno.
Il Natale povero è la contemplazione di Gesù che sulla croce ci ha cancellato la colpa e come bambino illumina i nostri occhi di gioia. È finita l'attesa, Dio viene in mezzo a noi come un qualsiasi figlio d'uomo, lo abbracciamo con gioia e lo teniamo sulle ginocchia come Maria.
Il povero Natale è quello fatto di cose, di finto amore, di regali che non apprezziamo neppure più e dei quali ci libereremo al più presto; il babbo natale a penzoloni sulle finestre.
Un augurio gioioso a tutti.
(P. Luigi)

giovedì 22 dicembre 2011

627 - PREGHIERA DI AVVENTO

E cielo e terra e mare invocano
la nuova luce che sorge sul mondo:
luce che irrompe nel cuore dell’uomo,
luce allo stesso splendore del giorno.
Tu come sole percorri la via,
passi attraverso la notte dei tempi
di darti carne e sangue e voce,
che da ogni corpo tu possa risplendere.
Per contemplarti negli occhi di un bimbo
e dentro il grido di tutto il creato,
sopra la voce di tutti i profeti.
Viviamo ogni anni l’attesa antica,
sperando ogni anno di nascere ancora,
e riscoprirti nell’ultimo povero,
vederti piangere le lacrime nostre
oppure sorridere come nessuno.
A te che sveli le sacre Scritture
ed ogni storia dell’uomo di sempre,
a te che sciogli l’enigma del mondo
il nostro canto di grazie e di lode.
(Didier Rimaud)

venerdì 16 dicembre 2011

626 - VI DOMENICA DI AVVENTO

Il testo di Luca 1,26-38a, che fa parte del cosiddetto “vangelo dell’infanzia” (Luca capitoli 1 e 2), presenta anzitutto i protagonisti del racconto: l’angelo Gabriele «mandato da Dio», una «vergine», Maria, prossima alle nozze con Giuseppe, discendente del casato del re Davide portatore delle promesse messianiche, e la precisazione del luogo dove è ambientato: Nazaret, una città della Galilea, regione settentrionale della Palestina. I vv. 28-33 riportano il saluto dell’Angelo a Maria che crea in lei in un primo momento del turbamento (v. 29), a cui fanno seguito le parole di rivelazione che la riguardano (v. 30) e quelle che le annunciano la maternità e il parto di «un figlio», Gesù (v.31). Queste rimandano a quanto si legge in Isaia 7,14, a proposito del concepimento e del parto della «vergine» predetto al re Acaz. I vv. 32-33 riportano quanto viene detto a Maria a proposito del figlio che nascerà da lei e che sarà riconosciuto come «Figlio dell’Altissimo». Sarà lui a realizzare finalmente la promessa fatta da Dio al re Davide: sarà un suo discendente a inaugurare un regno che «non avrà fine». I vv. 34-38, infine, registrano il dialogo tra Maria e l’Angelo. Questi ascrive all’azione dello Spirito Santo il concepimento in lei di colui che è in tutta verità figlio suo e figlio di Dio (v. 35) e le parla della sorprendente maternità della sua cugina Elisabetta, molto avanti nell’età e considerata sterile (Luca 1,8-25). Il brano si chiude al v.38 con la consegna senza riserve di Maria ai disegni mirabili di Dio. Commento liturgico-pastorale In questa ultima domenica di Avvento le Scritture ci invitano a scrutare con occhio di fede l’avverarsi del disegno divino che riguarda la nostra salvezza. Disegno che si concretizza nell’evento per noi inimmaginabile dell’incarnazione del figlio unico del Dio invisibile e tre volte Santo nel seno della Vergine Maria. Disegno reso possibile dal sì che Maria ha detto all’Angelo portatore del messaggio divino. Un sì che ha aperto la via all’effettivo dispiegarsi nella storia degli uomini della volontà salvifica di Dio e che i testi profetici hanno annunciato in un primo tempo come riservata al popolo dell’Antica Alleanza. Qui, invece, nell’assunzione da parte del Figlio di Dio della nostra natura e condizione umana, è evidente che la salvezza annunciata è per l’uomo. Ogni uomo. L’umanità intera che da Adamo si è succeduta fino ad oggi e da oggi si succederà sulla faccia della terra fino alla consumazione del tempo. I disegni di Dio, cosa davvero straordinaria, sono posti nelle mani della Vergine che è totalmente riempita della grazia, del favore e della benevolenza dell’Altissimo. Si comprende perciò come l’espressione della preghiera liturgica ambrosiana nel dire infallibilmente la fede cattolica nei riguardi di Maria, vera Madre di Dio e sempre Vergine, si abbandoni a un insuperabile lirismo riscontrabile specialmente nei due Prefazi proposti a scelta. Con l’annunzio dell’Incarnazione, il testo evangelico rivela, mediante il nome che Maria dovrà dare al Figlio, Gesù, la missione propria del Signore: recare salvezza al mondo intero e instaurare così il Regno «che non avrà fine». Per questo dovrà anzitutto salvare l’uomo dai suoi peccati esemplarmente condensati nel peccato dei nostri Progenitori Adamo ed Eva e dal quale è venuta per tutto il genere umano la rovina e «ogni miseria». (cfr. Prefazio II). Il peccato, da intendere come un voler sottrarsi alla mano creatrice di Dio per affermarsi orgogliosamente davanti a lui, spalanca la voragine dei peccati che sprofondano l’uomo nell’abisso tenebroso di sofferenza dove regnano i suoi mortali nemici, satana e la morte! Gesù dunque salverà il mondo dai suoi peccati e da questi implacabili nemici che lui stesso dovrà affrontare, combattere e vincere nell’ora della Croce fino a macchiare di rosso la veste immacolata con la quale la Vergine ha rivestito la sua divinità (Lettura: Isaia 63,1-3). In tal modo egli potrà sedersi sul trono e regnare «per sempre» non solo «sulla casa di Giacobbe» (Luca,33), ma sull’intera umanità. Posti davanti a tanta grandezza ci viene spontaneo fare nostra l’esortazione apostolica: «Siate lieti, ve lo ripeto, siate lieti» (cfr. Epistola: Filippesi 4,4). La rivelazione dei disegni divini che tutti ci riguarda diventa necessariamente motivo di gioia. Una gioia diversa da quella comunemente sperimentata nella nostra vita. Una gioia e una letizia interiori che sono lì nonostante l’esperienza della sofferenza, della morte e del potere del male! Il Signore, il Figlio di Dio, il Figlio della Vergine Madre è uno di noi ed è con noi!

lunedì 12 dicembre 2011

625 - STORIA E ATTUALITÀ DI LUCIA

Il tempo verso il Santo Natale è cadenzato dalle grandi figure di Santi che, con lo scorrere dei giorni del calendario, tornano per ricordarci le cose tanto speciali che hanno compiuto. Quei gesti, quelle imprese e quei grandi sacrifici che hanno fatto dedicare a ognuno di loro un giorno del nostro anno. Quando arriva il 13 dicembre ci sembra di scorgere una fanciulla che cammina nel buio, porta una corona di luci sul capo e si muove nella notte, con la sua lunga veste. È santa Lucia, vergine e martire tanto cara alla devozione cristiana, che segna una tappa importante nei giorni dell'Avvento. A lei vengono dedicate feste e processioni in tutta Italia, a partire da Siracusa, sua terra di origine.
Tutta la Sicilia celebra la giovane martire, ma la ricordano anche molte città d'Italia - da Napoli a Bari, da Parma ad Alessandria. In Lombardia il 13 dicembre è la festa dei bambini: centinaia di bancarelle ricche di dolci e giochi affollano le strade delle nostre cittadine. Tanti sono i dolcetti di zucchero, nati per ingolosire e attirare l'asinello di Lucia. A Lenna, in provincia di Bergamo, si fanno ancora gli antichi giochi legati al giorno più corto dell'anno, al solstizio di inverno celebrato da millenni. A Bergamo la tradizione popolare vuole che sia proprio Lucia a portare i doni più ricchi e non - più tardi - Babbo Natale. La città di Varese non ha una tradizione legata alla Santa martire, ma c'è una chiesa a lei dedicata a Suna di Verbania e a Bernate di Casale Litta: qui ormai da sei anni in occasione della ricorrenza le strade del piccolo borgo si riempiono delle tradizionali bancarelle del Mercatino di Santa Lucia, dove artigiani e contadini offrono i loro manufatti e prodotti tipici.
Ma la tradizione si fa più radicata spostandoci in Veneto. A Verona, si ricorda una terribile epidemia di "dolore agli occhi" che si era diffusa nel XIII secolo. La popolazione decise di chiedere la grazia a Santa Lucia, con un pellegrinaggio a piedi scalzi e senza mantello fino alla chiesa a lei dedicata. Il freddo spaventava i bambini, allora i genitori gli promisero che, tornati a casa, la Santa avrebbe fatto trovare loro tanti doni. I bambini accettarono e iniziarono il pellegrinaggio; poco tempo dopo l'epidemia si esaurì. Da allora il 13 dicembre si portano i bambini in chiesa per la benedizione degli occhi, ma ancor prima, la sera del 12 dicembre, si prepara sulla tavola di casa un piatto con del cibo per Lucia e per il suo asinello e l'indomani i bambini trovano i loro doni e un piatto pieno di dolci.
Santa Lucia viene ricordata in Italia ma anche in terre molto lontane, come la Svezia. Ricordiamo ancora, infatti, che secondo il vecchio calendario il 13 dicembre era la data del solstizio. La tradizione cristiana volle dedicare quel giorno a una "santa della luce", per garantire che sole e calore sarebbero presto tornati a dare vita al mondo. Ma è curioso che una santa siciliana sia così onorata in paesi freddi e tanto lontani da noi: forse furono proprio i missionari cristiani e gli emigrati a diffonderne il culto. Nelle case nordiche la tradizione vuole che la mattina del 13 dicembre la bimba più piccola si alzi per prima, indossi una tunica candida e una corona di candeline accese sul capo e svegli il resto della famiglia intonando la canzone di Santa Lucia.
Ma torniamo alla storia di Lucia: siamo nei primi anni del 300 dopo Cristo, durante la dura persecuzione di Diocleziano e ci troviamo a Siracusa. Esistono due redazioni del martirio della giovane Lucia: la prima - in lingua greca - risale al V secolo, la seconda - in latino - è leggermente più tarda e, molto probabilmente, collegata alla prima. I racconti hanno le sembianze di leggende agiografiche edificanti, ma molti storici ne sostengono la veridicità. Lucia e la madre si recarono al sepolcro di Agata a Catania per chiedere la guarigione della madre malata. Santa Agata curò la donna anziana e apparve in sogno a Lucia, predicendole il martirio e la gloria. Tornando a casa la giovane disse alla madre di aver deciso di consacrarsi a Cristo e le chiese di poter disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. La madre cedette dopo molte insistenze, ma non era d'accordo il promesso sposo della giovane. Lucia lo tranquillizzò dicendo di aver bisogno del denaro per acquistare un vasto terreno. Lui per un po' volle crederci ma la donna continuava a rimandare il matrimonio, così - visto che erano in vigore i decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall'Imperatore Diocleziano - l'uomo decise di denunciarla al prefetto di Siracusa Pascasio per la sua scelta cristiana. Lucia, arrestata, processata e interrogata, professò con orgoglio la propria fede: a nulla valsero le terribili torture.
Lucia era forte e sicura in Cristo e quando il crudele Pascasio decise di distruggere la sua purezza condannandola alla pena del postribolo, la giovane lo provocò dicendo che nulla avrebbe potuto contaminarla: anche se il suo corpo avesse subito violenza, lei sarebbe restata casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. Ed ecco il prodigio: la vergine Lucia divenne come di pietra e non poté più essere spostata in alcun modo. Pascasio, furioso ed esasperato, decise di farla bruciare. Ma neppure il fuoco riuscì a vincere Lucia, che venne decapitata dopo aver profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano.
Quasi subito il culto della Santa iniziò a diffondersi, le vennero dedicate chiese e, a partire dal Medioevo, si consolidò la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista. Anche a livello iconografico iniziò ad essere rappresentata con in mano un piattino contenente i suoi occhi. Si tratta di un patronato che, probabilmente, nasce dall'etimologia del nome della Santa: Lucia, da lux, luce. Lucia venne tumulata nelle vastissime catacombe di Siracusa e non sono certe le date della sua traslazione: prima a Costantinopoli e poi a Venezia; il suo culto a Venezia è attestato fin dai tempi delle crociate. Infatti nel 1204 i veneziani la vollero compatrona della città e le dedicarono una grande chiesa che sorgeva al posto dell'attuale stazione ferroviaria che si chiama - appunto - Santa Lucia. Le reliquie della Santa viaggiarono molto: furono anche a Metz, per la devozione del vescovo Teodorico. Dal 1860 le spoglie di Lucia, dopo tanti spostamenti, si trovano nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia a Venezia, dove furono poste dal papa Pio IX. Purtroppo le reliquie sono state più volte profanate dai ladri.
Ancora una nota letteraria: il grande Dante ricorda in suoi scritti come "Il Convivio" una grave malattia agli occhi che lo afflisse in gioventù a causa delle prolungate letture. Il poeta ottenne la guarigione per intercessione della Santa, così la celebra nella sua Divina Commedia. La vergine siracusana qui diventa la Santa che illumina il cammino dell'uomo nella comprensione del creato e nella fede in Dio. Dante la ricorda secondo l'idea che permea la sua opera intera, ovvero in aperta polemica con il contesto storico di decadenza morale, politica, civile del suo tempo. Così Lucia, dopo averlo aiutato ad intraprendere il difficile cammino di salvezza, a seguito dello smarrimento nella "selva oscura", lo mette in condizione di intraprendere il percorso della purificazione dei propri peccati.
Chiara Ambrosioni

sabato 10 dicembre 2011

624 - V DOMENICA DI AVVENTO

Isaia 11,1-10: nella profezia di Isaia si concentra l’attesa dell’umanità, che anela a giorni di pace, di giustizia, di riconciliazione. Riconosciamo in Gesù il germoglio di Iesse, venuto a donarci lo Spirito di cui è ricolmo, perché in lui si compia la nostra attesa.
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Salmo 98: Vieni Signore a giudicare il mondo.
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Epistola Ebrei 7,14-17.22.25: La pace e la giustizia,  di cui parla Isaia, no conoscono solo una dimensione orizzontale. Sono fondate verticalmente in una nuova relazione con Dio. Abbiamo perciò bisogno di un sacerdote nuovo e diverso, capace di realizzare la piena comunione tra noi e Dio.
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Vangelo Giovanni 1,19-27a.15c.27b-28: Colui che Isaia ha presentato come ricolmo dello Spirito di Dio, viene a battezzarci nel suo stesso Spirito. Giovanni con la sua testimonianza deve preparare la via, perché possiamo riconoscere e accogliere colui che è già misteriosamente in mezzo a noi.


giovedì 8 dicembre 2011

623 - RALLEGRIAMOCI ED ESULTIAMO

martedì 6 dicembre 2011

622 - SANT'AMBROGIO

Il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce». A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.

Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.

Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.

E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano in ricerca e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo: una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino –«il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).

Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, “affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro”». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo «ascoltare di dentro», questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.

Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica» che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confessioni 6,3). Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando –, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.

Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis! – Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se temi la morte, Egli è la vita; se desideri il cielo, Egli è la via; se sei nelle tenebre, Egli è la luce ... Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in Lui!» (La verginità 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.
Benedetto XVI

venerdì 2 dicembre 2011

621 - IV DOMENICA DI AVVENTO

Il racconto dell’ingresso in Gerusalemme (Mc. 11, 1-11) è avviato al v. 1a con l’ambientazione geografica riferita all’avvicinamento di Gesù a Gerusalemme, a cui fanno seguito le disposizioni date a due discepoli in vista del reperimento e della preparazione della cavalcatura (vv. 1b-7) . Il v. 11b serve a concludere con il riferimento all’uscita di Gesù dalla città nella quale tornerà per dare inizio alla sua Passione.
In particolare le disposizioni impartite ai due discepoli vanno lette alla luce del profeta Zaccaria 9,9, non esplicitamente citato: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina».
Anche la scena dell’ingresso in città (vv. 8-11) ricorda quelle dell’intronizzazione del re d’Israele (cfr. 1Re 1,38-40; 2Re 9,13). Le acclamazioni che le folle indirizzano a Gesù rimandano alle parole del Salmo 117 (118) 25-26 da cui viene anche il termine osanna, che letteralmente significa: il Signore «dà salvezza». Va anche evidenziato il riferimento al Regno «del nostro padre Davide» che qui viene visto realizzato in Gesù!
È evidente che il brano evangelico dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, proclamato nel tempo di Avvento, vuole mettere in primo piano la natura messianica della venuta del Signore in questo nostro mondo. È certo che nell’epoca storica in cui egli è vissuto era vivissima nel popolo l’attesa che Dio compisse le sue promesse inviando il Messia, ovvero il Cristo, per riscattare il suo popolo dall’oppressione straniera e per avviare il Regno che non avrà mai fine secondo la promessa fatta al re Davide.
I riferimenti biblici scelti dall’evangelista Marco per tracciare i lineamenti di Gesù quale Messia non vanno nella direzione sopra esposta, ma lo descrivono nella linea di un Messia “umile” già annunziato nella Lettura profetica: «Allora sarà stabilito un trono sulla mansuetudine, vi siederà con tutta fedeltà, nella tenda di Davide, un giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia» (Isaia 16,5).
Mentre ci avviciniamo al Natale impariamo a riconoscere con fede che tutte le aspirazioni dell’umanità alla pace, alla giustizia, alla fraternità e, più in profondità, alla salvezza come liberazione dall’oppressione del potere maligno che grava sui cuori e sulla storia, sono realizzate in colui che è venuto in questo mondo non con potenza e forza, ma nell’umiltà e nella debolezza del Bambino di Betlemme, nell’uomo della Croce che è il vero agnello dell’alleanza prefigurato dalla Lettura profetica.
La preghiera liturgica, in perfetta sintonia con la Parola proclamata, nel rendere grazie al Padre per aver mandato nel mondo il suo Verbo, ne indica così le motivazioni essenziali: «Perché, vivendo come uomo tra noi, ci aprisse il mistero del tuo amore paterno e, sciolti i legami mortali del male, ci infondesse di nuovo la vita eterna del cielo» (Prefazio).
Con il suo ingresso messianico nella storia degli uomini il Signore Gesù ha in realtà stabilito il suo trono «sulla mansuetudine» e ha inaugurato quel Regno che nulla e nessuno potranno mai abbattere. Tutto ciò deve rappresentare per noi, suoi discepoli in questo mondo e in questo tempo, la via da percorrere senza indugio, la via della mansuetudine e dell’umiltà che rende testimonianza autentica al Signore Gesù che per primo l’ha percorsa venendo per noi dal Cielo.
Concretamente siamo esortati a mettere in pratica ciò che l’apostolo Paolo dice ai fedeli della comunità di Tessalonica i quali, in attesa della «venuta del Signore con tutti i suoi santi», devono rendere saldi i loro cuori ed essere «irreprensibili nella santità» della vita che consiste nel crescere e sovrabbondare «nell’amore fra voi e verso tutti» (Epistola). Non a caso, nel canto Allo spezzare del Pane così preghiamo: «O Dio con noi, nostro sovrano, che ci hai dato la legge dell’amore, tu che le genti attendono, tu che le puoi redimere, vieni a salvarci».
Il mite re che fa il suo ingresso su un’umile cavalcatura, il Bambino nato a Betlemme, l’Agnello immolato sull’altare della Croce, Cristo Signore, è lui il Messia, l’unico, e non ve ne sarà un altro. A lui possiamo gridare con l’intera umanità: «Osanna», tu che sei “in alto”, vieni ad aiutarci e a salvarci.
A.Fusi

giovedì 1 dicembre 2011

620 - APOSTOLATO DELLA PREGHIERA - DICEMBRE 2011

Generale: Perché tutti i popoli della terra, attraverso la conoscenza ed il rispetto reciproco, crescano nella concordia e nella pace.
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Missionaria: Perché i bambini e i giovani siano messaggeri del Vangelo e perché la loro dignità sia sempre rispettata e preservata da ogni violenza e sfruttamento” 
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Fin dall'inizio, la Chiesa ha sempre avuto una particolare sensibilità per i giovani e i bambini. Il Signore Gesù esortava gli Apostoli a lasciare che i bambini andassero a Lui e ha esortato tutti i suoi discepoli ad essere come loro per poter entrare nel regno dei cieli. Anche S. Giovanni, nelle sue lettere, si rivolge ai giovani, “perché siate forti e la parola di Dio rimane in voi e avete vinto il maligno” (1 Gv 2, 14).
Questa sensibilità è stata evidenziata in modo particolare negli ultimi decenni, dal Beato Giovanni Paolo II e dall’attuale Pontefice, attraverso la celebrazione delle Giornate Mondiali della Gioventù. La Chiesa è consapevole che i giovani sono la speranza della Chiesa e dell'umanità. A loro è affidato in modo speciale il compito della nuova evangelizzazione. E’ chiaro che gli apostoli dei giovani deve essere gli stessi giovani. Nel messaggio per l’ultima Giornata Mondiale della Gioventù celebrata a Madrid lo scorso agosto, Papa Benedetto XVI ha detto ai giovani: “siate testimoni della speranza cristiana nel mondo intero: sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza!” (Messaggio del 6/8/2010, n.5).
Non di rado, i bambini subiscono molteplici forme di sfruttamento, data la loro precaria posizione di debolezza e di necessità. La società deve riconoscere la loro dignità personale, la dignità che spetta ad ogni uomo in quanto figlio di Dio. Quando il Verbo di Dio ha assunto la nostra natura umana, l’ha elevata alla più alta dignità. Ogni uomo è chiamato da Dio alla comunione di vita con Lui. Questa dignità è inalienabile e deve essere sempre rispettata.
La Chiesa, nonostante le tristi esperienze che sono emerse negli ultimi anni, e che sono una eccezione, si è sempre dedicata alla difesa dei più deboli, soprattutto dei bambini. Pressati dalla necessità di soddisfare le necessità primarie, molti bambini sono costretti a dover svolgere lavori fisici sproporzionati rispetto alla loro età e in condizioni disumane. In alcune parti del globo poi, sono sfruttati sessualmente e costretti alla prostituzione minorile. La Chiesa ha combattuto strenuamente contro queste ingiustizie soprattutto nei Paesi di missione, dal momento che è stato ormai accertato che spesso sono i paesi più sviluppati ad esercitare lo sfruttamento dei poveri. Giovanni Paolo II lanciò un appello urgente a tutte le autorità della società, per intraprendere, in via prioritaria, tutto ciò che era in loro potere per alleviare il dolore dei bambini (cfr.Ecclesia in America,48 ).
In molte culture oggi si percepisce la dimenticanza di Dio e un forte spirito laicista, che tende a organizzare la società come se Dio non esistesse. Senza comprendere l'uomo come immagine di Dio, la dignità umana è ridotta a una concessione statale. Di fronte a questa situazione, così in contrasto con i valori del Vangelo e rafforzata dai media, è necessario essere coraggiosi e non lasciarsi vincere dalle difficoltà. Benedetto XVI ha detto ai giovani di Malta: “Non abbiate paura, ma rallegratevi del suo amore per voi; fidatevi di Lui, rispondete al suo invito ad essere discepoli, trovate nutrimento e aiuto spirituale nei sacramenti della Chiesa” (Incontro con i giovani, 18/4/2010).
Dio ha voluto manifestare la sua onnipotenza nel paradosso dell'Incarnazione. Perché è potente, è diventato debole nel Bambino di Betlemme. Preghiamo quindi affinchè tutti i membri della Chiesa confidino nella forza dell'amore e abbiano fiducia che la forza si manifesta nella debolezza (2 Cor 12, 9). La Chiesa, sostenuta solo dalla forza della debolezza del suo Signore, possa quindi continuare a difendere i bambini e i giovani, proclamando l'amore che Dio ha per loro.