Parrocchia S. Gerolamo Emiliani di Milano - Blog

Il Blog "Insieme per..." vuole proporre spunti di riflessione e di condivisione per costruire insieme e fare crescere la comunità della parrocchia di San Gerolamo Emiliani di Milano, contribuendo alla diffusione del messaggio evangelico.

sabato 30 marzo 2013

796 - CRISTO E' RISORTO!

Luca Della Robbia, Resurrezione di Cristo (1442-1444)
Firenze, Sagrestia di Santa Maria del Fiore
Carissimi fratelli e sorelle di S. Gerolamo Emiliani,
in tempi tristi, difficoltosi che stiamo vivendo, possa l’incertezza e la disperazione essere annientata dalla certezza nella Risurrezione di Cristo, illuminando il nostro cammino con un sorriso ed un abbraccio.
E mi rivolgo soprattutto agli ammalati, agli anziani soli, ai giovani disoccupati e alle famiglie in difficoltà… il Signore Risorto vi doni al più presto quanto chiedete per una vita rinnovata e più serena.
Auguri di Buona Pasqua!
Padre Luigi, parroco

795 - BUIA E' LA NOTTE

Buia la notte nella tomba,
ma i raggi delle sante ferite
penetrano la durezza della pietra,
sollevata leggermente e posta a lato;
dal buio della tomba si erge
il corpo del Figlio dell’Uomo
illuminato di luce, irraggiante splendore,
nuovo corpo risorto del Figlio dell’Uomo.
Lento nella caverna Egli esce
nella tacita prima aurora del silente mattino,
lieve nebbia ricopre la terra;
profondamente ora sarà attraversato da luce
di bianco bagliore
e il Salvatore oltrepassa il silenzio
della terra nuovamente ridestata dal sonno.
Sotto i passi dei santi suoi piedi
fioriscono, mai visti, fiori di luce
e dove, lievemente, le sue vesti
sfiorano il suolo,
scintilla il terreno, brillio di smeraldo.
Dalle sue mani fluisce la benedizione
sui campi, sui prati in turgidi, chiari profluvi,
nella rugiada mattutina della pienezza
della grazia
irraggia, giubilando, la natura del Risorto,
quando Egli silente procede a fianco
degli uomini.
Edith Stein

794 - LA PAROLA DELLA CROCE

Marc Chagal - Crocefissione bianca
Cari fratelli e sorelle,
vi ringrazio di aver partecipato numerosi a questo momento di intensa preghiera. E ringrazio anche tutti coloro che si sono uniti a noi tramite i mezzi di comunicazione, specialmente le persone malate e anziane.
Non voglio aggiungere tante parole. In questa notte deve rimanere una sola parola, che è la Croce stessa. La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo: una Parola che è amore, misericordia, perdono. E’ anche giudizio: Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva.
Cari fratelli, la parola della Croce è anche la risposta dei cristiani al male che continua ad agire in noi e intorno a noi. I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la croce, come Gesù. Questa sera abbiamo sentito la testimonianza dei nostri fratelli del Libano: sono loro che hanno composto queste belle meditazioni e preghiere. Li ringraziamo di cuore per questo servizio e soprattutto per la testimonianza che ci danno. Lo abbiamo visto quando il Papa Benedetto è andato in Libano: abbiamo visto la bellezza e la forza della comunione dei cristiani di quella Terra e dell’amicizia di tanti fratelli musulmani e di molti altri. E’ stato un segno per il Medio Oriente e per il mondo intero: un segno di speranza.
Allora continuiamo questa Via Crucis nella vita di tutti i giorni. Camminiamo insieme sulla via della Croce, camminiamo portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù che ci ama tanto.
E' tutto amore.
papa Francesco, Omelia alla Via Crucis al Colosseo, 29 marzo 2013

venerdì 29 marzo 2013

793 - CONTEMPLIAMO IL MISTERO DELL'AMORE DI DIO

Guimaraes (Portogallo) - Via Crucis lignea
Quando il Signore portava il legno della croce, che si sarebbe mutato nel simbolo della sua sovranità, era per lui un grande ludibrio agli occhi degli empi; ma ai fedeli veniva rivelato un grande mistero. Infatti portava con dolce umiltà il segno del suo trionfo sulle spalle della sua invitta pazienza: strumento di salvezza, degno di adorazione da parte di tutti i popoli.
Oh mirabile potenza della croce! Oh ineffabile gloria della passione, hai attirato davvero ogni cosa a te, Signore, e mentre stendevi tutto il giorno le mani verso il popolo che non credeva e ti scherniva, donavi a tutto il mondo d'intendere e proclamare la tua maestà. La tua croce è fonte di ogni benedizione, la causa di ogni grazia: per suo mezzo viene data ai fedeli la forza nella sofferenza, la gloria nell'umiliazione, la vita nella morte.
San Leone Magno papa, Discorsi

Guimaraes (Portogallo) - Via Crucis lignea 

sabato 23 marzo 2013

792 - IN MEMORIA DEI MISSIONARI MARTIRI


24 marzo: Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.
Il 24 marzo 1980, mentre celebrava l’Eucaristia, venne ucciso Monsignor Oscar A. Romero, Vescovo di San Salvador nel piccolo stato centroamericano di El Salvador. La celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in ricordo dei missionari martiri, il 24 marzo, prende ispirazione da quell’evento sia per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno immolato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il Vangelo fino alle estreme conseguenze, sia per ricordare il valore supremo della vita che è dono per tutti. Fare memoria dei martiri è acquisire una capacità interiore di interpretare la storia oltre la semplice conoscenza.

791 - DOMENICA DELLE PALME 2013

Il brano (Giovanni 12,12-16) segue immediatamente quello dell’“unzione” di Gesù in casa di Lazzaro da lui «risuscitato dai morti» (Gv 12,1-11) e che viene proclamato nella Messa del giorno. I vv. 12-13 riportano l’iniziativa spontanea della folla presente in Gerusalemme per l’imminente festa di Pasqua che va incontro a Gesù recando, non semplici fronde strappate dagli alberi, ma palme, simbolo di vittoria. Con le palme l’evangelista registra il grido della folla preso dal Salmo 118,25-29 con il quale lo acclama quale inviato da Dio e re d’Israele.
I vv. 14-15 mettono in luce, nel gesto di Gesù di montare su un asinello, che la sua regalità si differenzia da quella dei sovrani di questo mondo. Anzi, con l’esplicita citazione del profeta Zaccaria (cfr. 9,9), viene chiarito che egli è il re umile e pacifico destinato, nel disegno divino, a governare non un solo popolo ma tutte le genti.
Il brano si chiude al v. 16 con l’indicazione preziosa anche per noi: sarà soltanto nell’ora della sua “glorificazione”, ovvero della Croce, che i discepoli di allora e di sempre saranno pienamente illuminati e potranno comprendere in pienezza le parole profetiche e i fatti riguardanti il Signore Gesù. 
Le Sacre Scritture ci introducono, in questa domenica in cui prende avvio la solenne distesa celebrazione del mistero pasquale del Signore, a una comprensione più profonda di tale mistero aiutandoci a riconoscerlo come il Messia inviato da Dio al suo popolo come Re. Un re «giusto e vittorioso»la cui venuta reca gioia in quanto «farà sparire il carro di guerra da Efraim e il cavallo da Gerusalemme» (Lettura: Zaccaria 9, 9s), ossia porterà la pace al suo popolo. Egli sarà soprattutto un re umile, come si desume dalla cavalcatura da lui scelta per il suo ingresso regale: «un asino, un puledro figlio d’asina» (v. 9), ed estenderà il suo regno«fino ai confini della Terra» (v. 10) ossia a tutti i popoli ai quali recherà pure come dono la pace. La parola profetica trova il suo compimento ed è pienamente compresa nell’evento riportato nel brano evangelico di Giovanni riguardante l’ingresso di Gesù in Gerusalemme «seduto su un puledro d’asina» (Vangelo: Giovanni 12,14). È pertanto lui, Gesù di Nazaret, il Messia inviato da Dio come Re d’Israele per pacificare e risollevare il regno promesso a Davide come regno che non avrà fine e che in lui abbraccerà il mondo intero, ma nella modalità del tutto inedita e sorprendente della sua umiltà e della sua mitezza, allusive della sua passione e della sua morte violenta.
La preghiera liturgica commenta in modo insuperabile l’evento salvifico di cui oggi si fa memoria cogliendo il senso spirituale dell’avvenimento evangelico dell’ingresso messianico del Signore, e motiva così il rendere grazie che coinvolge «qui e in ogni luogo» la Chiesa: «Tu hai mandato in questo mondo Gesù, tuo Figlio, a salvarci perché, abbassandosi fino a noi e condividendo il dolore umano, risollevasse fino a te la nostra vita» (Prefazio). L’Epistola paolina iscrive l’opera del pacifico e umile Messia, re d’Israele nel disegno divino di riconciliare ogni realtà che esiste in terra e nei cieli, per mezzo di lui, umiliato fino alla morte di croce e il cui sangue è dato come garanzia di riconciliazione e di pacificazione tra tutte le realtà creata e Dio stesso (v.20).
Al pari dei discepoli anche noi comprenderemo in pienezza ciò che è avvenuto e ciò che è significato nell’ingresso messianico a Gerusalemme, soltanto nell’ora nella quale il Signore«fu glorificato» ossia, nell’ora della sua esaltazione in Croce. Ricordando ovvero “facendo memoria” di quanto egli ha fatto, impariamo anche noi, suoi discepoli, che la “regalità” secondo il disegno inaccessibile di Dio non consiste nella forza e nella potenza mondane, ma nell’obbedienza al volere di Dio che addita anche a noi, Chiesa santa del suo Figlio, la via indicata al suo Unigenito: la via della piccolezza, dell’umiliazione e della mitezza, la via della Croce. Nel sangue della sua Croce, infatti, il Re umile venuto a noi dal Cielo, ha riconciliato e pacificato il mondo intero invitandolo ad entrare nel suo Regno di gioia. È l’invito che ripete incessantemente la Chiesa in questo giorno che inaugura i giorni della nostra salvezza: «Venite tutti ad adorare il Re dell’universo: sei giorni mancano alla sua passione: viene il Signore nella sua città, secondo le Scritture. Accorrono lieti i fanciulli, si stendono a terra i mantelli. In alto levando l’ulivo acclamiamo a gran voce: “Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto tu sei che vieni al tuo popolo: abbi di noi pietà”».
A. Fusi

venerdì 22 marzo 2013

790 - IL CIELO CI HA SORRISO

Roma, Messa di inaugurazione del pontificato di papa Francesco

789 - LA RESPONSABILITA' DI CUSTODIRE


Piazza San Pietro
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato predecessore : gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode.
Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e tutto l'amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazareth, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo. E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!
Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi la speranza. Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.
papa Francesco, Piazza San Pietro,
19 marzo 2013
© Copyright 2013 - Libreria Editrice Vaticana
 

domenica 17 marzo 2013

788 - "LUI È IL PADRE AMOROSO CHE SEMPRE PERDONA"

papa Francesco durante l'Angelus
Fratelli e sorelle, buongiorno!
Dopo il primo incontro di mercoledì scorso, oggi posso rivolgere di nuovo il mio saluto a tutti! E sono felice di farlo di domenica, nel giorno del Signore! Questo è bello è importante per noi cristiani: incontrarci di domenica, salutarci, parlarci come ora qui, nella piazza. Una piazza che, grazie ai media, ha le dimensioni del mondo.
In questa quinta domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenta l’episodio della donna adultera (cfr Gv 8,1-11), che Gesù salva dalla condanna a morte. Colpisce l’atteggiamento di Gesù: non sentiamo parole di disprezzo, non sentiamo parole di condanna, ma soltanto parole di amore, di misericordia, che invitano alla conversione. "Neanche io ti condanno: va e d’ora in poi non peccare più!" (v. 11). Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi? Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito. "Grande è la misericordia del Signore", dice il Salmo.
In questi giorni, ho potuto leggere un libro di un Cardinale – il Cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene, quel libro, ma non crediate che faccia pubblicità ai libri dei miei cardinali! Non è così! Ma mi ha fatto tanto bene, tanto bene … Il Cardinale Kasper diceva che sentire misericordia, questa parola cambia tutto. E’ il meglio che noi possiamo sentire: cambia il mondo. Un po’ di misericordia rende il mondo meno freddo e più giusto. Abbiamo bisogno di capire bene questa misericordia di Dio, questo Padre misericordioso che ha tanta pazienza … Ricordiamo il profeta Isaia, che afferma che anche se i nostri peccati fossero rossi scarlatti, l’amore di Dio li renderà bianchi come la neve. E’ bello, quello della misericordia! Ricordo, appena Vescovo, nell’anno 1992, è arrivata a Buenos Aires la Madonna di Fatima e si è fatta una grande Messa per gli ammalati. Io sono andato a confessare, a quella Messa. E quasi alla fine della Messa mi sono alzato, perché dovevo amministrare una cresima. E’ venuta da me una donna anziana, umile, molto umile, ultraottantenne. Io l’ho guardata e le ho detto: "Nonna – perché da noi si dice così agli anziani: nonna – lei vuole confessarsi?". "Sì", mi ha detto. "Ma se lei non ha peccato …". E lei mi ha detto: "Tutti abbiamo peccati …". "Ma forse il Signore non li perdona …". "Il Signore perdona tutto", mi ha detto: sicura. "Ma come lo sa, lei, signora?". "Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe". Io ho sentito una voglia di domandarle: "Mi dica, signora, lei ha studiato alla Gregoriana?", perché quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo: la sapienza interiore verso la misericordia di Dio. Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai! "Eh, padre, qual è il problema?". Eh, il problema è che noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono. Non ci stanchiamo mai, non ci stanchiamo mai! Lui è il Padre amoroso che sempre perdona, che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi con tutti. Invochiamo l’intercessione della Madonna che ha avuto tra le sue braccia la Misericordia di Dio fatta uomo.
Adesso tutti insieme preghiamo l’Angelus: Preghiera dell’Angelus
Rivolgo un cordiale saluto a tutti i pellegrini. Grazie della vostra accoglienza e delle vostre preghiere. Pregate per me, ve lo chiedo. Rinnovo il mio abbraccio ai fedeli di Roma e lo estendo a tutti voi, e lo estendo a tutti voi, che venite da varie parti dell’Italia e del mondo, come pure a quanti sono uniti a noi attraverso i mezzi di comunicazione. Ho scelto il nome del Patrono d’Italia, San Francesco d’Assisi, e ciò rafforza il mio legame spirituale con questa terra, dove – come sapete – sono le origini della mia famiglia. Ma Gesù ci ha chiamati a far parte di una nuova famiglia: la sua Chiesa, in questa famiglia di Dio, camminando insieme sulla via del Vangelo. Che il Signore vi benedica, che la Madonna vi custodisca. Non dimenticate questo: il Signore mai si stanca di perdonare! Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere il perdono.
Buona domenica e buon pranzo!

Papa Francesco all'Angelus 

sabato 16 marzo 2013

787 - LA DOMENICA DI LAZZARO

Lazzaro, un amico di Gesù, gravemente malato, sta per morire. Il suo nome significa "Dio aiuta"; ma non sembra che ci sia speranza, tanto più che Gesù, che pur lo ama, appena avvisato della malattia, si trattiene ancora due giorni là dove si trova, a est del Giordano. Ci si aspetterebbe che Gesù si precipiti a guarirlo e invece il messaggio che Gesù offre è quello che l'amore del Signore non evita i passi difficili della vita, ma aiuta a rileggerli in una prospettiva nuova, piena di speranza. Su un piano esclusivamente umano, ci si trova però in una conclusione senza speranza, perché Gesù giunge dopo quattro giorni, quando non v'è più possibilità che l'anima del defunto si aggiri ancora nei pressi del cadavere (massimo tre giorni, pensano i rabbini). E poiché c'è il fetore dalla tomba, non si può parlare di morte apparente.
Il testo è complesso e l'interpretazione va dalla restituzione di Lazzaro alla sua famiglia alla restituzione della vita nuova a Lazzaro che giunge, già ora, alla pienezza della vita di Dio, andando dove il Padre destina i suoi amici.
Gesù è riconosciuto come colui che porta la vita e la offre a chi crede. Ma è anche colui che, per rigenerare nella vita il mondo, deve passare lui stesso attraverso la morte (11,53).
Le scene più importanti e i dialoghi aprono gli orizzonti delle attese e interpellano Gesù sulla morte.
- Nel dialogo tra Marta e Gesù, l'attaccamento e la fiducia di Marta si spalancano sulla fede nuova, ma ella non riesce a seguire Gesù fino in fondo, pur pronunciando l'atto di fede della comunità dei cristiani: "Credo che Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire in questo mondo". Ma non è la fede piena del credente, quanto piuttosto la fede dell'ebreo che attende il Messia (per il mondo ebraico "Figlio di Dio" ha ancora il significato di "giusto, santo, prediletto da Dio" e non il significato trinitario di cui noi cristiani lo abbiamo caricato).
 - Il dialogo-monologo di Gesù di fronte al sepolcro si svolge davanti agli operai che devono togliere la pietra, davanti alle sorelle, ai discepoli ed agli amici venuti da Gerusalemme. Gesù si rivolge al Padre, ringraziandolo "perché mi hai ascoltato". A questo punto il grido di Gesù è il grido della forza di Dio di fronte al male ed alla morte: "Lazzaro, vieni fuori". Con questo segno Gesù mostra di poter donare la vita e di esserne la fonte, capace di una vita che inizia già ora e non finisce, anche se deve attraversare il passo difficile della morte. Ci troviamo di fronte ad un testo di grande valore battesimale. Siamo diventati figli di un popolo che lotta e vince contro la morte come Gesù e intercede per coloro che soffrono e sono incatenati dalle paure, dalle disavventure, dalle tragedie, dalla ingiustizia del mondo. Il Signore ci chiede di intercedere presso il Padre e di non avere paura e di essere sicuri che egli sa interpretare, capire e soccorrere colui che, per rigenerare nella vita il mondo, deve passare lui stesso attraverso la morte (11,53). Le scene più importanti e i dialoghi aprono gli orizzonti delle attese e interpellano Gesù sulla morte.
- Nel dialogo tra Marta e Gesù, l'attaccamento e la fiducia di Marta si spalancano sulla fede nuova, ma ella non riesce a seguire Gesù fino in fondo, pur pronunciando l'atto di fede della comunità dei cristiani: "Credo che Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire in questo mondo". Ma non è la fede piena del credente, quanto piuttosto la fede dell'ebreo che attende il Messia (per il mondo ebraico "Figlio di Dio" ha ancora il significato di "giusto, santo, prediletto da Dio" e non il significato trinitario di cui noi cristiani lo abbiamo caricato).
- Il dialogo-monologo di Gesù di fronte al sepolcro si svolge davanti agli operai che devono togliere la pietra, davanti alle sorelle, ai discepoli ed agli amici venuti da Gerusalemme. Gesù si rivolge al Padre, ringraziandolo "perché mi hai ascoltato". A questo punto il grido di Gesù è il grido della forza di Dio di fronte al male ed alla morte: "Lazzaro, vieni fuori". Con questo segno Gesù mostra di poter donare la vita e di esserne la fonte, capace di una vita che inizia già ora e non finisce, anche se deve attraversare il passo difficile della morte.
Ci troviamo di fronte ad un testo di grande valore battesimale. Siamo diventati figli di un popolo che lotta e vince contro la morte come Gesù e intercede per coloro che soffrono e sono incatenati dalle paure, dalle disavventure, dalle tragedie, dalla ingiustizia del mondo.
Il Signore ci chiede di intercedere presso il Padre e di non avere paura e di essere sicuri che egli sa interpretare, capire e soccorrere.
don Raffaello Ciccone

mercoledì 13 marzo 2013

786 - IL PRIMO SALUTO DI PAPA FRANCESCO

Papa Francesco
Il 266.mo Vicario di Cristo è il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, finora arcivescovo di Buenos Aires, 76 anni. Ad annunciarlo il cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran dalla Loggia centrale della Basilica di San Pietro. Il nuovo Pontefice ha scelto il nome di Francesco: è la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa che un Papa assume questo nuovo. E' il primo gesuita eletto Papa. Alle 19.06 la fumata bianca dal comignolo della Cappella Sistina dove più volte si era appollaiato un gabbiano. Il nuovo Papa è stato eletto al quinto scrutinio: i cardinali hanno raggiunto la maggioranza dei due terzi necessari per l'elezione. Le campane di San Pietro hanno suonato a festa nel tripudio degli oltre 100mila fedeli radunati in piazza. Queste le prime parole rivolte da Papa Francesco ai fedeli:
"Fratelli e sorelle, buonasera!
Voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo … ma siamo qui … Vi ringrazio dell’accoglienza. La comunità diocesana di Roma ha il suo vescovo: grazie! E prima di tutto, vorrei fare una preghiera per il nostro vescovo emerito, Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca
".
Il Papa ha poi recitato il Padre Nostro, l'Ave Maria e il Gloria al Padre con i fedeli presenti in Piazza San Pietro. Poi ha proseguito:
"E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa, che oggi incominciamo e nel quale mi aiuterà il mio cardinale vicario, qui presente, sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo che chiede la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me".
Papa Francesco ha quindi dato la sua benedizione Urbi et Orbi a tutti i fedeli presenti. poi ha concluso:
"Fratelli e sorelle, vi lascio. Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto! Ci vediamo presto: domani voglio andare a pregare la Madonna, perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo!".
Radio Vaticana, 13/03/2013

785 - PAPA FRANCESCO


Papa Francesco
Il nuovo Pontefice Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, finora arcivescovo di Buenos Aires, Ordinario per i fedeli di rito orientale residenti in Argentina e sprovvisti di Ordinario del proprio rito, è nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, da una famiglia di origine piemontese, Mario, impiegato ferroviere e Regina Sivori, casalinga, genitori di cinque figli. Ha studiato e si è diplomato come tecnico chimico, ma poi ha scelto il sacerdozio ed è entrato nel seminario di Villa Devoto. L'11 marzo 1958 è passato al noviziato della Compagnia di Gesù, ha compiuto studi umanistici in Cile e nel 1963, di ritorno a Buenos Aires, ha conseguito la laurea in filosofia presso la Facoltà di Filosofia del collegio massimo «San José» di San Miguel.
Fra il 1964 e il 1965 è stato professore di letteratura e di psicologia nel collegio dell'Immacolata di Santa Fe e nel 1966 ha insegnato le stesse materie nel collegio del Salvatore di Buenos Aires.Dal 1967 al 1970 ha studiato teologia presso la Facoltà di Teologia del collegio massimo «San José», di San Miguel, dove ha conseguito la laurea. Il 13 dicembre 1969 è stato ordinato sacerdote. Nel 1970-71 ha compiuto il terzo probandato ad Alcalá de Henares (Spagna) e il 22 aprile 1973 ha fatto la sua professione perpetua.
È stato maestro di novizi a Villa Barilari, San Miguel (1972-1973), professore presso la Facoltà di Teologia, Consultore della Provincia e Rettore del collegio massimo. Il 31 luglio 1973 è stato eletto Provinciale dell'Argentina, incarico che ha esercitato per sei anni. Fra il 1980 e il 1986 è stato rettore del collegio massimo e delle Facoltà di Filosofia e Teologia della stessa Casa e parroco della parrocchia del Patriarca San José, nella Diocesi di San Miguel. Nel marzo 1986 si è recato in Germania per ultimare la sua tesi dottorale; quindi i superiori lo hanno destinato al collegio del Salvatore, da dove è passato alla chiesa della Compagnia nella città di Cordoba come direttore spirituale e confessore.
Il 20 maggio 1992 Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo titolare di Auca e Ausiliare di Buenos Aires. Il 27 giugno dello stesso anno ha ricevuto nella cattedrale di Buenos Aires l'ordinazione episcopale dalle mani del Cardinale Antonio Quarracino, del Nunzio Apostolico Monsignor Ubaldo Calabresi e del Vescovo di Mercedes-Luján, Monsignor Emilio Ogñénovich.
Il 3 giugno 1997 è stato nominato Arcivescovo Coadiutore di Buenos Aires e il 28 febbraio 1998 Arcivescovo di Buenos Aires per successione, alla morte del Cardinale Quarracino. Diventa così Primate d'Argentina. Dal 6 novembre dello stesso anno è anche ordinario per i fedeli di rito orientale in Argentina che non possono contare su un Ordinario del loro rito.
Da Giovanni Paolo II creato e pubblicato Cardinale nel Concistoro del 21 febbraio 2001, del Titolo di San Roberto Bellarmino.
Da Cardinale è stato Relatore Generale aggiunto alla 10ª Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (ottobre 2001). Ha partecipato nel Conclave del 18 e 19 aprile del 2005. Ha partecipato ed è membro del Consiglio post sinodale dell’XI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dal 2 al 23 ottobre del 2005.
Radio Vaticana, 13/03/2013

venerdì 8 marzo 2013

784 - IL CIECO NATO NELL'ARTE

El Greco, La guarigione del cieco nato,
1567, Dresda
La tela di El Greco che ritrae l’episodio si trova ora a Dresda, gli studiosi la datano attorno al 1567, quindi all’inizio del suo soggiorno veneziano. L’artista che, nella sua isola natale, si era formato alla scuola dell’arte delle Icone, scopre a Venezia le grandi visione sceniche del Tintoretto e ne resta affascinato.
In questa tela l’incontro fra Cristo e il cieco è collocato sul lato sinistro e la piscina di Siloe è posta in primo piano, ben evidente. Gesù, infatti, è il vero Inviato: se anche si oppone al sabato, egli però non si oppone al cammino di obbedienza cui vincola la tradizione. Infatti non guarisce direttamente il cieco, ma lo manda all’acqua della piscina. Solo dopo questo gesto il cieco torna guarito. Nella tela di Dresda, accanto alla piscina, in primo piano c’è un cane, simbolo di fedeltà. Cristo guarisce di sabato non per una volontà esplicita di trasgressione, ma per una profonda fedeltà al precetto stesso del sabato che riguardava la salvezza persona dell’uomo, di cui la guarigione fisica è segno e promessa.
L’agitazione generale che coglie i presenti dice bene il clima che El Greco dovette respirare a Venezia, una città che aveva stretti contatti con le comunità tedesche, scosse dalla questione Luterana. Un clima simile registra Giovanni: di fronte alla certezza di un miracolo si nega l’evidenza e ci si appella a questioni giuridiche, impedendo ai semplici di vedere il passaggio della grazia.

783 - LA DOMENICA DEL CIECO NATO

Il brano di Giovanni è strutturato in tre parti. La prima, vv. 1-12, riporta la narrazione del “miracolo” e la reazione dei presenti; la seconda: vv. 13-34 riporta la reazione dei farisei con il duplice interrogatorio del “miracolato” (vv. 15-17; 24-34) e dei suoi genitori (vv.18-23); la terza (vv. 35-39) propone il dialogo tra Gesù e il miracolato che professa la sua fede in lui. Nella prima parte il racconto del miracolo è preceduto dal dialogo di Gesù con i suoi discepoli convinti che la condizione del cieco dalla nascita sia dovuta a colpe commesse da lui o dai suoi genitori (v. 2). Gesù esclude il nesso cecità-peccato e afferma che nell’uomo, nato cieco, Dio manifesterà le sue “opere”che riguardano l’illuminazione del mondo mediante il suo Figlio entrato in esso come “luce” (v. 3). La narrazione del miracolo (vv. 6-7) sorprende per i gesti di Gesù che, dopo aver fatto del fango con la sua saliva, lo spalma sugli occhi del cieco con l’ingiunzione di recarsi alla piscina di Siloe, «che significa Inviato». Con quel gesto Gesù intende far capire che l’uomo è di per sé prigioniero delle tenebre da cui potrà essere liberato recandosi dall’“Inviato”, ossia credendo in lui che è venuto nel mondo proprio per compiere tale “opera”. La prima parte si chiude con la constatazione dell’avvenuta guarigione del cieco nato da parte dei conoscenti (vv. 8-12) e soprattutto con le domande sul “come” abbia ottenuto la vista; domande che saranno riprese drammaticamente nella seconda parte del racconto.
Questa si apre con il miracolato condotto dai farisei, esperti dottori e maestri della Legge, i quali prendono da subito una posizione negativa nei confronti di Gesù il quale, «facendo del fango», ha violato il precetto fondamentale per Israele del riposo sabbatico. Sorprende la reazione decisa del guarito nel dichiarare che Gesù è un profeta (v. 17). Con ciò l’evangelista mostra come la vera guarigione dell’uomo consiste nella sua adesione di fede in Gesù rivelatore di Dio. Il cieco che ora vede è, al contrario dei farisei che si ostinano nel rimanere chiusi all’opera di illuminazione del Signore, l’esemplare per ogni uomo che gradatamente giunge alla pienezza di luce ossia alla pienezza di fede in lui: è «un profeta» (v. 17); «viene da Dio» (v. 33); «Figlio dell’uomo» (v. 35).
Il racconto si conclude con Gesù che volutamente va a cercare e trova il miracolato cacciato fuori dalla Sinagoga (vv. 34-35) per proporgli di aderire a lui che racchiude in pienezza il mistero del Figlio dell’uomo che, in verità, è il Figlio di Dio!
La risposta finale del cieco che ora vede per la prima volta il Signore è una decisa professione di fede resa evidente dall’esplicita affermazione: «Credo, Signore». In tal modo il cieco nato, illuminato dal Signore, diviene il prototipo e l’esemplare per tutti i credenti.
Avvicinandosi le solennità pasquali i testi biblici, oggi proclamati, intendono accompagnare e favorire una più immediata preparazione al Battesimo, prima attualizzazione della salvezza pasquale, e propiziare, nei già battezzati, la riscoperta e, se è il caso, l’impegno a recuperarne la grazia persa con il peccato.
Anche la nostra tradizione liturgica, infatti, ha letto in chiave battesimale sia l’evento vetero-testamentario dell’acqua scaturita dalla roccia (cfr. Lettura: Esodo 17,6), sia il racconto evangelico della guarigione dell’uomo, cieco dalla nascita, da sempre riconosciuto come “essenziale” nella catechesi di preparazione al Battesimo.
Ne fa fede il Prefazio I, appartenente all’antica scuola eucologica ambrosiana che ne sintetizza così il significato: «Nel mendicante guarito è raffigurato il genere umano prima nella cecità della sua origine e poi nella splendida illuminazione che al fonte battesimale gli viene donata».
In questo contesto l’immersione nell’acqua battesimale, evocata dalla piscina di Siloe, rappresenta il passaggio dall’oscurità totale, che è l’incredulità, alla grazia di “vederci”, ossia di pervenire alla fede che il Vangelo rende plasticamente nel cieco guarito che vede con i suoi occhi Gesù! È lui, Gesù, il Figlio la“luce vera” che al credente è concesso di guardare in faccia, “a viso scoperto”. In effetti è fin troppo evidente registrare ieri, come oggi, che l’umanità, priva dell’illuminazione propria del dono battesimale della fede, vive in un’interiore totale “oscurità”.
L’uomo di fatto non sa chi è, qual è il senso della sua vita, qual è il destino che l’attende. Egli è nella solitudine più drammatica e infelice finché non incontra Colui che è la “Luce del mondo” che gli indica il cammino da compiere: «Va’ a lavarti alla piscina di Siloe» (Vangelo: Giovanni 9,7), immergiti cioè nel dono battesimale che apre il tuo cuore alla fede. Ti sarà allora permesso di “vedere Gesù” e, in lui, di comprendere finalmente anche te stesso e il senso del tuo esistere e del tuo destino, quello di essere elevato «con il sacramento della rinascita… alla dignità di Figlio”».
Pertanto, ciò che conta più di ogni altra cosa è poter “vedere”, ossia riconoscere con fede, nel Signore Gesù, la “luce del mondo”. È questa la splendida “illuminazione” che ha portato il cieco nato a confessare con piena adesione a colui che afferma di essere il “figlio dell’uomo”(Giovanni 9,35-38): «Credo, Signore!». Ad essa, purtroppo, al pari dei farisei, non pochi chiudono ostinatamente il loro cuore racchiudendosi da sé stessi in una notte tenebrosa senza fine.
A ragione, perciò, l’Apostolo si rivolge ai fedeli di Tessalonica dicendo: «Siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre» (Epistola: 1 Tessalonicesi 5,5). Queste parole si addicono, dunque, a quanti sono stati “illuminati”ovvero a quanti, per mezzo del Battesimo, costituiscono il popolo dei fedeli e, simultaneamente, rappresentano un monito a non ritornare nelle “tenebre” dell’incredulità facendosi trascinare dal fascino oscuro del peccato.
Per questo l’Apostolo esorta a vivere nella sobrietà e a vestirsi «con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (v. 8). Si tratta di esortazioni che noi tutti siamo invitati ad accogliere di buon animo improntando la nostra vita sull’insegnamento apostolico che ci preserva dallo scivolare di nuovo nelle “tenebre”. Per questo abbiamo bisogno di immergerci continuamente nel flusso di grazia che fuoriesce dal Cristo Crocifisso che accostiamo nei divini misteri.
A lui, consapevoli della nostra debolezza, affidiamo l’inestimabile dono battesimale che ci ha fatti «figli della luce» (v.5) e quello ancora più grande, frutto della sua morte «per noi», quello di vivere «insieme con lui»(v.10), di condividere cioè la sua vita che sperimentiamo già da ora, accostandoci al suo altare così pregando: «Signore, dà luce ai miei occhi perché non mi addormenti nella morte; perché l’avversario non dica: “Sono più forte di lui”. Tu che hai aperto gli occhi al cieco nato, con la tua luce illumina il mio cuore perché io sappia vedere le tue opere e custodisca tutti i tuoi precetti» (All’Ingresso).
Alberto Fusi

venerdì 1 marzo 2013

782 - DOMENICA DI ABRAMO

La seconda parte del capitolo 8 del Vangelo di Giovanni, da cui è preso il brano evangelico odierno, è contrassegnata dal riferimento ad Abramo come padre di Israele. Qui viene riportato l’insegnamento di Gesù nel tempio di Gerusalemme e destinato sostanzialmente a rivelare la sua più piena identità di Figlio di Dio, partecipe cioè della natura divina del Padre. Insegnamento che suscita la reazione dei farisei ma anche un’iniziale adesione di fede da parte di molti che lo seguivano e lo ascoltavano. Il brano appare diviso in due sezioni: i vv. 31-45 riguardano la necessità di credere, mentre i vv. 46-59 insistono sulla necessità di credere alla persona di Gesù. In particolare i vv. 31-36 riportano le parole di Gesù «a quei Giudei che gli avevano creduto» almeno inizialmente e che ruotano attorno all’opposizione libertà/schiavitù del peccato. La libertà è garantita a coloro che “rimangono” nella Parola di Gesù. I vv. 37-40 introducono il tema di Abramo come padre del quale, però, quelli che con orgoglio si proclamano figli non compiono le opere, vale a dire non si pongono in quella disponibilità di fede propria di Abramo! Per questo essi non possono proclamarsi figli di Dio rifiutando di credere in colui che è uscito da Dio ed è stato da lui inviato, ma, con tale rifiuto, dimostrano di essere figli del diavolo (vv. 41-45). Nei vv. 46-50 si insiste sul fatto che Gesù “dice la verità”, in quanto, con la sua Parola, offre l’autentica e piena rivelazione di Dio al contrario dei suoi interlocutori che rifiutandola preferiscono seguire la menzogna.
Di qui la solenne proclamazione del v. 51: «In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno», che costituisce un estremo appello rivolto da Gesù ai suoi interlocutori perché si aprano all’ascolto e all’osservanza fedele della sua parola che garantisce di poter sfuggire alla morte da intendere come “eterna”, ovvero come dannazione. Modello di un simile ascolto obbediente è proprio Gesù che, essendo il Figlio, “conosce” Dio, accoglie e osserva la sua volontà (v. 55).
Il brano si chiude con la parola di autorivelazione che il Signore pronuncia a riguardo di sé stesso: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono». Con ciò afferma che Dio, che è l’Unico, può essere trovato e riconosciuto nel Figlio e, di conseguenza, in lui è trovato e riconosciuto come Padre! A questa rivelazione anelava Abramo il quale, a motivo della sua fede, poté vedere e gioire del Figlio rivelatore di Dio Padre! Il v. 59 registra infine la reazione violenta dei Giudei che, chiudendosi ostilmente al Figlio rivelatore del Padre, determinano il suo “nascondersi” ai loro occhi e la sua uscita dal Tempio.
Nel graduale percorso quaresimale proposto a coloro che domandano il Battesimo e ai fedeli che, attraverso quel percorso, intendono riattivare la grazia propria di quel sacramento, il brano evangelico, costruito intorno alla figura di Abramo, il credente per eccellenza, intende evidenziare come la fede in Cristo, Figlio di Dio, sia da considerare l’opera essenziale per quanti nel Battesimo diventeranno “figli” ed entreranno a far parte di quella «moltitudine di popoli, preannunziati al patriarca Abramo come sua discendenza» (Prefazio I). Stando al testo evangelico, credere in Cristo significa credere che egli è il portatore della verità, ossia della rivelazione piena e definitiva di Dio che, se accolta, è in grado di liberare quanti sono schiavi del peccato (cfr. Vangelo: Giovanni 8,32). Si tratta di una schiavitù che paralizza il cuore umano e lo rende incapace di credere e, dunque, di giungere a essere libero e pronto per le cose grandi che Dio ha in serbo per lui. Credere in Cristo significa, inoltre, credere che in lui si adempie l’antica promessa di Dio a Israele: «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò» (Lettura: Deuteronomio 18.18). Gesù, però, non è semplicemente il profeta pari a Mosè (cfr. v.15), bensì il Messia, il Figlio stesso di Dio, la sua Parola vivente, dopo del quale l’umanità non dovrà aspettare un altro rivelatore. A lui, perciò, tutti sono invitati a prestare ascolto perché portatore, nella sua persona, della Parola che Dio vuole comunicare al mondo e sulla cui bocca è posta la «verità intera», ossia la rivelazione del disegno di salvezza che Dio intende attuare proprio attraverso di lui. Di tale disegno parla l’Apostolo come di una manifestazione della “giustizia” di Dio, che ha deciso di rendere “giusti” quanti, Giudei e Greci, sono ugualmente peccatori e, quindi, «privi della sua gloria», vale a dire della sua presenza vivificante (cfr. Epistola: Romani 3,21-23). L’Apostolo si riferisce qui alla condizione di lontananza e di estraneità a Dio in cui si trova l’umanità a causa del peccato. Una condizione che rende impossibile sia ai Giudei, fieri possessori della Legge, sia ai Greci, altrettanto fieri della loro sapienza filosofica, di farsi trovare da sé stessi giusti agli occhi di Dio, in una parola di sfuggire alla rovina eterna e di accedere alla salvezza. La «verità udita da Dio» (Giovanni 8,40), portata nel mondo dal suo Figlio al quale occorre prestare l’assenso della fede, ci dice che egli è in grado di liberare quanti credono dalla schiavitù del peccato (cfr. v. 36) e di restituirli a un rapporto vitale con Dio. Liberazione che l’Apostolo descrive come redenzione, riscatto dal potere del peccato, espiazione, ovvero purificazione e remissione dei peccati mediante il suo sangue quello, ovviamente, della sua Croce. In essa si è «manifestata la giustizia di Dio» che, nel suo Figlio, l’unico giusto, ha deciso di rendere giusti tutti coloro che aderisco con fede a lui (cfr. Romani 3,24-26). 
Accogliamo, perciò, senza indugio l’esortazione evangelica: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli» (Giovanni 8,31), “dimorando” costantemente con tutta la nostra mente e il nostro cuore in Cristo rivelatore ultimo e attuatore dei grandi disegni salvifici di Dio. Impareremo, in tal modo, a compiere giorno dopo giorno l’«opera di Abramo» crescendo nella fede in Gesù, e amandolo come Figlio «uscito da Dio» e da lui mandato nel mondo per salvare il mondo. La fede, pertanto, è il dono a cui anelano quanti si preparano, nelle prossime feste pasquali, a essere rigenerati alla grazia di figli di Dio. La fede è il dono e la responsabilità di tutti noi già battezzati e che l’osservanza quaresimale vuole rendere più vivida e riconoscibile nella nostra vita improntata all’ascolto obbediente della Parola di Dio e “giustificata” davanti ai suoi occhi per mezzo del sangue del suo Figlio.
La celebrazione eucaristica è il luogo privilegiato per accrescere ed esprimere compiutamente la fede, per renderla sempre più ferma e operosa, ed è il luogo dove, a contatto con il Corpo e il Sangue del Signore, veniamo di continuo da peccatori resi giusti dal suo amore, che si manifesta come dono di sé, della sua stessa vita, significato nel sangue prezioso della sua Croce. 
A. Fusi