Il brano di Matteo 25,31-46 conclude il discorso sulla venuta del Figlio dell’uomo (Matteo 24-25) e si può dividere in tre parti. La prima: vv. 31-33, introduce la venuta gloriosa del Figlio dell’uomo con il raduno universale davanti al suo trono e la separazione tra i buoni (pecore) alla sua destra e i cattivi (capre) alla sua sinistra. Nella seconda: vv. 34-45, possiamo distinguere il dialogo del re con i chiamati alla beatitudine per aver compiuto le opere di carità e di misericordia verso i poveri a lui identificati (vv. 34-40) e il dialogo con quelli posti alla sua sinistra destinati alla perdizione e alla rovina eterna per non aver compiuto le sopra citate opere di carità verso i poveri (i piccoli) e, in definitiva, verso di lui (vv. 41-45). Il v. 46 rappresenta la conclusione che descrive l’effettiva esecuzione delle sentenze: l’eterna rovina-la vita eterna.
In questa domenica, conclusiva dell’anno liturgico, viene messa in rilievo la regalità che il Signore Gesù ha acquistato sul mondo, sulla storia e su ogni realtà esistente a motivo della sua morte, con la quale ha affrontato e vinto il potere del male che teneva proditoriamente in suo pugno l’uomo e l’intera creazione uscita dalla mano di Dio.
Con la sua risurrezione, inoltre, ha fatto brillare la vittoria della vita come speranza certa per i credenti e ha ricevuto dal Padre «ogni potere in cielo e in terra», compreso quello di giudicare, ossia di escludere o di ammettere nella vita beata del Regno dei Cieli.
Il testo evangelico, a tale riguardo, ci trasporta nelle realtà ultime e definitive che attendono ogni uomo, tra le quali spicca il giudizio affidato al Figlio dell’uomo, ossia al Signore Gesù Cristo vittorioso sul male, sul peccato e sulla morte.
In questa domenica, conclusiva dell’anno liturgico, viene messa in rilievo la regalità che il Signore Gesù ha acquistato sul mondo, sulla storia e su ogni realtà esistente a motivo della sua morte, con la quale ha affrontato e vinto il potere del male che teneva proditoriamente in suo pugno l’uomo e l’intera creazione uscita dalla mano di Dio.
Con la sua risurrezione, inoltre, ha fatto brillare la vittoria della vita come speranza certa per i credenti e ha ricevuto dal Padre «ogni potere in cielo e in terra», compreso quello di giudicare, ossia di escludere o di ammettere nella vita beata del Regno dei Cieli.
Il testo evangelico, a tale riguardo, ci trasporta nelle realtà ultime e definitive che attendono ogni uomo, tra le quali spicca il giudizio affidato al Figlio dell’uomo, ossia al Signore Gesù Cristo vittorioso sul male, sul peccato e sulla morte.
L’Antico Testamento, come risulta dalla pagina profetica, conosce la misteriosa figura del Figlio dell’uomo come proveniente dalla sfera celeste e al quale il vegliardo che siede sul trono circondato da miriadi di angeli (Lettura: Daniele 7,9-10), nel quale si deve riconoscere Dio, consegna un potere eterno «che non finirà mai e il suo regno non sarà mai distrutto» (v.14). Non sorprende, perciò che, per indicare l’ora del giudizio finale, l’evangelista applichi a Gesù il titolo di Figlio dell’uomo, altamente espressivo della sua sovranità sovratemporale, e lo descriva ricorrendo al linguaggio vetero-testamentario idoneo a parlare delle realtà ultime qual è, appunto, il giudizio supremo e inappellabile che avviene attorno al suo trono circondato dalla corte celeste e davanti al quale «verranno radunati tutti i popoli» (Vangelo: Matteo 25,31-32).
Gesù stesso, del resto, si attribuirà il titolo di Figlio dell’uomo, a indicare il “potere” che verrà posto nelle sue mani, in seguito agli eventi pasquali della sua morte e risurrezione, che lo proclamano davanti al mondo e alla storia quale egli è in senso pieno ed esclusivo: Figlio di Dio. Nella sua Pasqua, infatti, si manifesta al livello più alto il suo amore filiale per il Padre e il suo amore incandescente per l’umanità piagata e umiliata dal male e dal peccato.
Si comprende, perciò, come il giudizio abbia luogo davanti a colui che reca sulla sua persona i segni visibili della sua carità e consista, essenzialmente, in una “separazione” tra “pecore” e “capre”, ossia tra buoni e cattivi che nell’esistenza terrena vivevano insieme. Separazione fatta in base a un unico criterio: «l’aver dato o non dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati…» (cfr. vv.35-36), il criterio, cioè, della carità verso gli ultimi, i piccoli, i tribolati, che il Giudice ritiene come fatta o non fatta a sé stesso (v.40; v.45).
Una identificazione giustificata in quanto, nel mistero del suo amore per gli uomini umiliati dal potere del male, egli non solo si è spogliato della sua condizione divina venendo in questo mondo rivestito della nostra fragilità e debolezza, ma ha sacrificato «se stesso sull’altare della croce come vittima immacolata di pace», portando così «a compimento il mistero della nostra salvezza» (Prefazio).
Gesù stesso, del resto, si attribuirà il titolo di Figlio dell’uomo, a indicare il “potere” che verrà posto nelle sue mani, in seguito agli eventi pasquali della sua morte e risurrezione, che lo proclamano davanti al mondo e alla storia quale egli è in senso pieno ed esclusivo: Figlio di Dio. Nella sua Pasqua, infatti, si manifesta al livello più alto il suo amore filiale per il Padre e il suo amore incandescente per l’umanità piagata e umiliata dal male e dal peccato.
Si comprende, perciò, come il giudizio abbia luogo davanti a colui che reca sulla sua persona i segni visibili della sua carità e consista, essenzialmente, in una “separazione” tra “pecore” e “capre”, ossia tra buoni e cattivi che nell’esistenza terrena vivevano insieme. Separazione fatta in base a un unico criterio: «l’aver dato o non dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati…» (cfr. vv.35-36), il criterio, cioè, della carità verso gli ultimi, i piccoli, i tribolati, che il Giudice ritiene come fatta o non fatta a sé stesso (v.40; v.45).
Una identificazione giustificata in quanto, nel mistero del suo amore per gli uomini umiliati dal potere del male, egli non solo si è spogliato della sua condizione divina venendo in questo mondo rivestito della nostra fragilità e debolezza, ma ha sacrificato «se stesso sull’altare della croce come vittima immacolata di pace», portando così «a compimento il mistero della nostra salvezza» (Prefazio).
Il suo regno, pertanto, sarà popolato soltanto da gente capace di amare, come lui ha amato e, dunque un regno che, diversamente dai regni mondani fondati sul dominio e sul potere e, perciò, caduchi, sarà «un regno universale ed eterno: regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» (Prefazio).
Esso apparirà nell’ora solenne della parusìa, l’ora del definitivo trionfo del Signore sulle potenze celesti ostili ai disegni salvifici e su tutti i nemici di Dio e degli uomini compreso quello che l’Apostolo chiama l’ultimo e il più terribile, quale è la morte (cfr. Epistola: 1Corinzi 15,24-26). Solo allora, infatti, potrà consegnare a Dio Padre il regno conquistato dal suo amore e abitato da quanti, al pari di lui, hanno amato, così che, finalmente, «Dio sia tutto in tutti» (v. 28).
Mentre attendiamo la manifestazione piena e definitiva del Regno, guardando al Signore che ci ha amato «sino alla fine», esaminiamo il nostro cuore e la nostra vita e se scoprissimo di essere collocati «alla sinistra» del trono del grande Re, supplichiamolo perché il suo Spirito ci trasformi intimamente e ci renda capaci di vivere della sua carità, che ci tiene costantemente vicini agli affamati, agli assetati, ai tribolati e agli ultimi che il mondo disprezza e non degna di considerazione alcuna, così come ha disprezzato il Signore Crocifisso.
Così facendo tutti noi, membra vive della Chiesa, autentico germoglio del Regno, mostreremo che è possibile un’altra vita, un altro mondo, un altro regno: quello dell’Amore crocifisso, l’unico che riconosciamo nostro Re. Lui solo, infatti, ha avuto «pietà dei nostri errori» e, «obbediente al volere del Padre», si è lasciato «condurre sulla croce come agnello mansueto destinato al sacrificio». A lui, solo a lui, dunque, diciamo: «Sia gloria, osanna, trionfo e vittoria», a lui «la più splendente corona di lode e di onore» (canto Dopo il Vangelo).
Esso apparirà nell’ora solenne della parusìa, l’ora del definitivo trionfo del Signore sulle potenze celesti ostili ai disegni salvifici e su tutti i nemici di Dio e degli uomini compreso quello che l’Apostolo chiama l’ultimo e il più terribile, quale è la morte (cfr. Epistola: 1Corinzi 15,24-26). Solo allora, infatti, potrà consegnare a Dio Padre il regno conquistato dal suo amore e abitato da quanti, al pari di lui, hanno amato, così che, finalmente, «Dio sia tutto in tutti» (v. 28).
Mentre attendiamo la manifestazione piena e definitiva del Regno, guardando al Signore che ci ha amato «sino alla fine», esaminiamo il nostro cuore e la nostra vita e se scoprissimo di essere collocati «alla sinistra» del trono del grande Re, supplichiamolo perché il suo Spirito ci trasformi intimamente e ci renda capaci di vivere della sua carità, che ci tiene costantemente vicini agli affamati, agli assetati, ai tribolati e agli ultimi che il mondo disprezza e non degna di considerazione alcuna, così come ha disprezzato il Signore Crocifisso.
Così facendo tutti noi, membra vive della Chiesa, autentico germoglio del Regno, mostreremo che è possibile un’altra vita, un altro mondo, un altro regno: quello dell’Amore crocifisso, l’unico che riconosciamo nostro Re. Lui solo, infatti, ha avuto «pietà dei nostri errori» e, «obbediente al volere del Padre», si è lasciato «condurre sulla croce come agnello mansueto destinato al sacrificio». A lui, solo a lui, dunque, diciamo: «Sia gloria, osanna, trionfo e vittoria», a lui «la più splendente corona di lode e di onore» (canto Dopo il Vangelo).
Nel concludere l’Anno liturgico e preparandoci a vivere una nuova stagione di grazia, impariamo dalla solennità odierna a seguire le orme del Signore nella via della Carità, perché quando egli verrà come nostro giudice non abbiamo nulla da temere. Mentre ci accostiamo alla mensa imbandita dall’amore del Signore, supplichiamo il Padre perché «obbediamo con gioia a Cristo, Signore dell’universo, per regnare anche noi un giorno nella gloria senza fine» (Orazione Dopo la Comunione).
A.Fusi