Al 1666 risale il più antico esame scientifico dell'immagine
"impressa" sulla tilma (il mantello di Juan Diego). Essa è costituita da due teli di tessuto di
fibre d'agave, usato in Messico dagli indios poveri per fabbricare abiti,
cuciti insieme con filo sottile. Su di essa si vede l'immagine della Vergine,
di dimensioni leggermente inferiori al naturale - la statura è di 143 centimetri - e
di carnagione un po' scura, donde l'appellativo popolare messicano di Virgen
Morena o Morenita, circondata dai raggi del sole e con la luna sotto i suoi
piedi, secondo la figura della Donna dell'Apocalisse. I tratti del volto non
sono né di tipo europeo né di tipo indio, ma piuttosto meticcio - cosa
"profetica" al tempo dell'apparizione - così che oggi, dopo secoli di
commistioni fra le due razze, la Vergine di Guadalupe appare tipicamente
"messicana". Sotto la falce argentata della luna un angelo, le cui
ali sono ornate di lunghe penne rosse, bianche e verdi, sorregge la Vergine
che, sotto un manto verde-azzurro coperto di stelle dorate, indossa una tunica
rosa "ricamata" di fiori in boccio dai contorni dorati e stretta
sopra la vita da una cintura color viola scuro: questa cintura - il "segno
di riconoscimento", presso gli Aztechi, delle donne incinte - indica che
la Vergine è in procinto di donare agli uomini il Salvatore.
I risultati degli esami compiuti su questa immagine dai
pittori e dagli esperti nel 1666 sono i seguenti: è assolutamente impossibile
che un'immagine così nitida sia stata dipinta a olio o a tempera sull'ayate,
data la completa mancanza di preparazione di fondo; che il clima del luogo in
cui l'immagine è stata esposta, senza alcuna protezione, per centotrentacinque
anni è tale da distruggere in un tempo più breve qualsiasi pittura, anche se
dipinta su tela di buona qualità e ben preparata, a differenza del rozzo ayate
della tilma di Juan Diego. Gli studi scientifici sull'immagine e sull'ayate
proseguono nei secoli successivi fino ai giorni nostri.
Nel 1751 una commissione di sette pittori con a capo Miguel
Cabrera è incaricata di compiere una nuova ispezione. Le conclusioni a cui
giungono Miguel Cabrera e i suoi colleghi sono sostanzialmente le stesse a cui
erano giunti i medici e i pittori nel 1666: l'immagine non è un dipinto,
apparendo i colori come "incorporati" alla trama della tela; e non
soltanto una pittura, ma lo stesso tessuto dell'ayate avrebbe dovuto
disgragarsi in breve tempo nelle condizioni climatiche della radura ai piedi
del Tepeyac. La scienza appare dunque chiamata a fornire risposte sempre più
adeguate ai tanti interrogativi che ancora oggi circondano questa immagine
cosiddetta "acheropita", vocabolo d'origine greca che vuol dire
"non fatta da mani d'uomo". Sembra di ripercorrere, in questo senso,
il medesimo cammino della Sindone conservata a Torino, cioé dell'immagine di
Gesù "impressa" sul lenzuolo con cui fu avvolto il corpo di Nostro
Signore nel sepolcro.
Nel 1936 il professor Richard Kuhn, direttore della sezione
di chimica del Kaiser Wilhelm Institut di Heidelberg, che due anni dopo, nel
1938, ottenne il premio Nobel per la chimica, ebbe la possibilità di esaminare
due fili, uno rosso e uno giallo, provenienti da frammenti della tilma di Juan
Diego. I risultati delle analisi, condotte con le tecniche più sofisticate
allora disponibili, dimostrarono che su quelle fibre non vi era traccia di
coloranti di nessun tipo, né vegetali, né animali, né minerali. Lungo il corso
dei secoli sono state fatte del le aggiunte pittoriche attorno all'immagine
primitiva della Vergine. Queste aggiunte si sono screpolate e sono sbiadite,
mentre l'immagine è sempre rimasta intatta, con i colori vivi che sembrano
freschi.